Quando Roma era un paradiso, tra vitelloni e paparazzi: la rinascita della Capitale nel dopoguerra

Mel Ferrer e Audrey Hepburn a Trinità dei Monti (Foto di Rino Barillari)
di Fabio Isman
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Giovedì 7 Gennaio 2016, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 8 Gennaio, 19:12
Nella Roma del dopoguerra, le coperte distribuite dagli americani diventavano cappotti; al Seminario Lateranense si erano salvati oltre ottocento ricercati dai nazisti; si vive «una trasformazione: dalla fame, ad uno stato di sopravvivenza precaria, con punte di benessere introvabili un Europa; i negozi riaprono i battenti: i gioiellieri in via Condotti espongono “broches” di diamanti mai viste neppure a Place Vendôme». Prosperano i pittori, e compaiono il cinema e i neologismi; vitelloni, paparazzi e paraculi, furbacchioni il cui nome deriva dalle toppe di cui le mamme dotavano i pantaloni dei ragazzi, dediti al “furto con salto”: balzavano sui cassoni dei camion carichi di merce, e arraffavano, con il rischio di cadere; i “paraculi” per proteggerli. Lo racconta Stefano Malatesta, narratore di lungo corso, in uno svelto librino, “Quando Roma era un paradiso”, che si divora tutto d’un fiato. Prima, dei frammenti di vita vissuta; poi, una serie di medaglioni, ritratti di persone e personaggi.
 
L’INGLESE A SPANNE
«Fino agli Anni 50 e anche oltre, il fascino della Ville lumière venne leggermente oscurato da una Roma liberata finalmente dal fascismo, tornata più bella e più grande che prima»; il film “Roma città aperta” ha successo in Francia, e torna a Roma come «un capolavoro, osannato da quelli che prima l’avevano snobbato»; un giornale parla di quattromila tra pittori e scultori in città, forse «comprendendo anche gli imbianchini e molti giovanottoni, fazzoletto rosso al collo, che si presentavano come artisti di via Margutta». Dominano già Moravia giovane e Pasolini: «Sdogana lo stile del Novecento dall’accusa di essere un’architettura di regime, tronfia e retorica». Nei primi dieci anni di dopoguerra, il cinema funge come locomotiva; anche quel produttore che diceva di prendere l’Air Fresh per andare a Parigi, e ritornando da Atene, del fascino del Pordenone: «Con gli attori, usava frasi come What cazzo do you want?» perché l’inglese lo aveva imparato solo a spanne. L’Urbe ridondava d’improbabili cineasti; Ennio Flaiano inventa una delle sue battute: «Si fa il film, certo, certissimo, anzi probabile».

Sbocciano però Rossellini, Anna Magnani, Audrey Hepburn, Marcello Mastroianni e Marisa Allasio, figlia dell’allenatore della Lazio. A Ostia c’erano stabilimenti allora famosi: Belsito, Marechiaro, Vecchia Pineta. Salvo D’Angelo, produttore di “Fabiola” di Blasetti, aveva affittato Castel Sant’Angelo, e aperto lì il suo studio; per farsi finanziare da coltivatori di grano o produttori d’olio del Sud, i produttori regalavano foto di Silvana Pampanini (mancata proprio ieri, a 90 anni), con generosa scollatura e debito autografo.

GLI ANNI RUGGENTI
I tempi della Rugby Roma e dei bagnini. Uno, di Ostia, era Nello Pazzafini: un omone; giocherà una partita in serie A, con i calciatori della Fiorentina; però, non gli passano il pallone: per risposta, lui mena, e dovrà smettere. Il primo lottizzatore di Castelfusano è Maurizio Arena: un villino nel nulla; e il protagonista di “Poveri ma belli” vi porta Maria Beatrice di Savoia, Titti: si concede in mutande all’esercito dei paparazzi, poi ostenta la conquista.

Il librino è denso di memorie: Gore Vidal, Tennessee Williams, Truman Capote, che allora erano nell’Urbe. Orson Welles si era separato dalla moglie Rita Hayworth. «L’invasione da parte degli americani avvenne nel 1950», dice Malatesta, a Cinecittà; e Sam Zimbalist produce Quo Vadis, «ricostruendo un Circo Massimo più grande di quello vero»: è la Hollywood sul Tevere. “Vacanze romane” lancia la Hepburn; «Clark Gable si faceva fare le camicie da Battistoni; David Niven e Cary Grant, mocassini e cravatte da Franceschini»; Errol Flynn preferiva «strane divise tra il marinaio e il pirata». Ava Gardner andava dalle Sorelle Fontana; Sofia Loren da Emilio Schuberth, «il più elegante di tutti era Roberto Capucci»; e “Un americano a Roma” mostra l’amore con cui ricambiano i cittadini dell’Urbe. Sboccia Mina con Tintarella di luna; e Giorgio Franchetti, famoso collezionista, «portava Klein e de Kooning a Bomarzo, per fargli vedere i mostri». Forse, soltanto Sandra Petrignani con “Addio a Roma”, quattro anni fa, ha saputo essere altrettanto prodiga di fatti, aneddoti e di un clima della Capitale nei suoi anni più ruggenti.

I RITRATTI
Dopo i racconti, i ritratti. Plinio De Martiis, immenso gallerista; Pico Cellini, restauratore e pure cacciatore di falsi; Mario Schifano; Tano Festa; Valentino Zeichen; Gino de Dominicis; Jannis Kounellis; lo stesso Franchetti. Fino a Eric Hebborn, tra i falsari più celebri, che, da ultimo, viveva a Piazza della Malva (ma qui, siamo già oltre: muore nel 1996, e chissà se Roma era ancora un paradiso; come con Sebastian Matta, che se ne va nel 2002): vita incredibile, con un esito altrettanto inconcepibile; scambiato per un barbone (era soltanto ubriaco e aveva battuto la testa), sballottato tra un ospedale e l’altro. Le trattorie e le cucine dei tempi andati, dal mitico Cesaretto ai fratelli Menghi, chiudono il librino: forse perché, a Roma, tutto finisce, da sempre e comunque, a tarallucci e vino?
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