Dal 2018 pensioni più alte: gli incrementi fino all’1,2%

Dal 2018 pensioni più alte: gli incrementi fino all’1,2%
di Luca Cifoni
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Martedì 24 Ottobre 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 12:48

Per due anni, il numero è stato “zero” per tutti: l’andamento dei prezzi, piatto o addirittura in leggerissima discesa, ha fatto sì che nel 2016 e nel 2017 non scattasse nemmeno la parziale rivalutazione delle pensioni prevista dalla legge in vigore. Ma sul tema dell’adeguamento dei trattamenti previdenziali al costo della vita le novità di queste settimane sono addirittura tre. La prima e la più concreta scatterà dal primo gennaio del 2018, con il ritorno degli aumenti per rivalutazione (tecnicamente si chiama perequazione): nei prossimi giorni l’Istat ufficializzerà una percentuale - calcolata in via provvisoria - che con ogni probabilità dovrebbe assestarsi all’1,2 per cento; ma questo incremento non sarà pieno per gli assegni superiori a tre volte il trattamento minimo Inps. Domani intanto sul tema della perequazione torna a riunirsi la Corte costituzionale, dopo la decisione del 2015 di dichiarare illegittimo il blocco applicato dal governo Monti per gli anni 2012 e 2013. Infine la materia è anche oggetto del confronto tra governo e sindacati sulla cosiddetta “fase 2” del tavolo sulla previdenza: è già dato per acquisito il ritorno dal 2019 a un meccanismo di perequazione più generoso.

LO SCHEMA
Intanto però ancora per il 2018 si applicherà lo schema deciso dal governo Letta nel 2013 per il triennio successivo, e poi prorogato per altri due anni. L’adeguamento è pieno per le pensioni fino a 3 volte il trattamento minimo Inps (che è di 501,89 euro mensili). Quindi l’incremento sarà effettivamente dell’1,2 per cento per gli assegni fino a circa 1.505 euro mensili lordi. Così per un importo di 1000 euro mensili l’incremento lordo sarà di 12 euro, che però diventeranno circa 8 in termini netti dopo l’applicazione dell’Irpef. Tra tre e quattro volte il minimo Inps ci sarà un aumento lordo appena minore, perché la perequazione è riconosciuta in misura del 95%. Tra quattro e cinque volte si scende al 75% dell’1,2% ovvero lo 0,9%: una pensione di 2.500 euro mensili lordi avrebbe uno scatto lordo di 23 euro che però si riducono a 13 per la progressività dell’Irpef. Per importi ancora superiori la percentuale di incremento viene applicata al 50 e poi al 45 per cento. Questo meccanismo limita il recupero dell’inflazione in base ad una percentuale che si applica all’intero importo della pensione, una volta superate le soglie. Dal 2019 si tornerà invece alla legge del 2000 e quindi alla formula per scaglioni, con percentuali del 100 del 90 e del 75 % applicate però solo sulle quote di pensioni che superano i tetti: l’adeguamento sarà pieno o quasi per i trattamenti bassi e medi e più sostanzioso anche per quelli alti.

LA LEGGE DEL 2000
Proprio la legge del 2000 è il termine di paragone per i pensionati che avevano contestato in tribunale la drastica misura applicata nel 2012 e nel 2013 in seguito all’emergenza finanziaria (nessun aumento oltre le tre volte il minimo Inps) La Consulta due anni fa aveva dato loro ragione, ma il governo era corso ai ripari riconoscendo solo una piccola parte degli arretrati. Di qui gli ulteriori ricorsi. Ora la parola torna ai giudici, interpellati per di più anche sulla legittimità del meccanismo del governo Letta. Per conoscere la decisione potrebbero essere necessarie settimane, ma certo la Corte accanto alle ragioni dei pensionati terrà conto degli equilibri di finanza pubblica.

Sempre oggi l’Istat renderà noti i dati definitivi sull’andamento dell’aspettativa di vita nel 2016: cifre delicate perché salvo sorprese dovrebbero portare all’incremento di cinque mesi dei requisiti pensionistici, con l’età della vecchiaia che passerebbe a 67 anni dal 2019.

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