«La informo che la pensione a lei intestata è stata ricalcolata a decorrere dal 1 gennaio 2019, in applicazione dell’articolo 1, comma 260 della legge 30 dicembre 2018, n. 145». Iniziano così le comunicazioni che l’Inps sta iniziando a inviare a milioni di pensionati italiani. Nel testo sono inserite anche le tabelle che contengono il vecchio e il nuovo importo del trattamento previdenziale e il conguaglio che, viene specificato, «sarà trattenuto sulle prossime rate di pensione». Si tratta in molti casi di una differenza di pochi euro; solo per gli assegni di importo più elevato le somme in ballo sono maggiormente significative. Tuttavia è probabile che gli interessati non sappiano di cosa si tratta, anche se del tema in realtà si è già parlato a dicembre: sta entrando nel vivo infatti solo in questi giorni l’applicazione della norma che riduce – per il 2019 e per i due anni successivi – la rivalutazione riconosciuta alle pensioni per adeguarle all’aumento del costo della vita (in gergo tecnico si chiama perequazione).
MODIFICA A FINE ANNO
Il fatto è che la legge di Bilancio era stata modificata dal Parlamento sul punto specifico nel mese di dicembre, per essere poi approvata praticamente alla vigilia del Capodanno. In questa situazione, l’Inps non ha fatto in tempo ad applicare sugli assegni in pagamento a gennaio il nuovo schema, meno favorevole di quello previsto dalla normativa in vigore. E così sono state pagate con il vecchio sistema le prime tre rate dell’anno, fino a quella di marzo che è da pochi giorni arrivata sui conti bancari o postali dei pensionati: gli importi risultavano quindi un po’ più generosi di quanto dovuto. Ora l’istituto previdenziale ha effettuato i ricalcoli e questa differenza accumulata nei tre mesi dovrà essere recuperata. Gabriella Di Michele, direttore generale dell’istituto, ha confermato durante un’audizione alla Camera che la rata di aprile sarà la prima calcolata con i criteri aggiornati e che successivamente si procederà ai conguagli, anche quelli (ben più pesanti) originati non dalla rivalutazione ma dal taglio ai trattamenti alti: cioè l’altra misura introdotta con la legge di Bilancio, che prevede decurtazioni con percentuali tra il 15 e il 40 per cento sugli assegni oltre i 100 mila euro lordi annui.
L’EFFETTO
MECCANISMO DIVERSO
Prima dell’approvazione del comma 260, vigeva un diverso meccanismo di rivalutazione, con percentuali dal 100 al 75 per cento applicate però su scaglioni della pensione: dunque più vantaggioso di quello attuale che taglia l’adeguamento all’inflazione sull’intero importo e con decurtazioni più sostanziali. Facciamo un esempio: una pensione che nel 2018 valeva 2.700 euro lordi mensili, circa 1.920 nette, con l’inflazione all’1,1 per cento avrebbe dovuto arrivare a 2.728, mentre con la nuova formula si fermerà a 2.715. La decurtazione è un po’ minore in termini netti perché una parte dell’incremento perduto sarebbe stato comunque assorbito dalla tassazione; è bene tenere a mente però che la perdita di reddito è definitiva, nel senso che non sarà più recuperata e dunque va moltiplicata per tutte le rate mensili percepite in futuro dal pensionato. Dal punto di vista dello Stato, l’operazione deve portare risparmi per 253 milioni quest’anno destinati a crescere a 742 il prossimo e poi a oltre 1,2 miliardi nel 2021. Dal taglio delle pensioni alte sono invece attesi circa 80 milioni l’anno.
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