Il regista Paolo Genovese: «I miei sette giorni tra vivere e morire»

Il regista Paolo Genovese: «I miei sette giorni tra vivere e morire»
di Alvaro Moretti
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Lunedì 28 Maggio 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 20 Giugno, 14:28

Ci sono due scene che provi ad immaginare sempre, da sempre: il primo giorno della tua vita, il giorno del tuo funerale. Alfa e omega che possono contenere il senso del tutto. Paolo Genovese, racchiude il percorso nelle 301 pagine di Il primo giorno della mia vita e lo ha trasformato in poetica, bandiera di un’identità narrativa: per immagini, quando gira film come Perfetti Sconosciuti e The Place e Tutti pazzi per Freud; per parole su carta come in questo romanzo edito da Einaudi, che oggi fa presentare da amici attori e cantanti come Barbarossa e Giallini, Foglietta e la Puccini, Edoardo Leo e Luca Barbarossa all’Off/ Off di Roma. 
 


Perché la pagina di un libro e non un copione e un set, stavolta? 
«La penna non ha budget. Sono e resterò sempre un regista. Per un tema tanto profondo come questo, con uomini e donne alle prese con la scelta disperata di farla finita e con un angelo che dilata l’ultimo attimo per cambiare - forse - il finale, volevo sentirmi libero dalla schiavitù della realizzabilità». 

Un angelo che compare nell’ultimo momento della vita di quattro individui a New York, concede sette giorni per osservare l’oltre da sé e scegliere. Sembra una storia sul libero arbitrio, soprattutto. 
«II libero arbitrio, sì, perché io rifiuto il teorema che a governarci sia la sfiga, la sfortuna, il destino, le coincidenze e le religioni: tutto quello che, esterno da noi, serve per appenderci e giustificare successi e sconfitte. Io penso che tutto parta da noi e così, anche nei miei film, vedete sempre i personaggi che mettono le loro scelte al centro della loro vita. Che si prendono la responsabilità della strada da prendere. E anche qui capita. Poi il caso esiste, non governa però». 

Cos’è, o meglio, chi è allora questo angelo? 
«Non l’angelo berlinese di Wenders, si mette al livello degli uomini. E’ un angelo che si scoraggia o entusiasma, non ha tutte le risposte, fa casino: come i quattro suicidi. Un traghettatore che non ha chiaro il suo stesso percorso. Tutto molto umano, come vede». 

Umana è la depressione che causa i suicidi. 
«Il mal di vivere, scusi ma io detesto la parola depressione: una poliziotta che ha perso la figlia; un motivatore che motiva gli altri senza trovare più un motivo per sé; una ginnasta che dalla medaglia d’oro per un incidente finisce sulla sedia a rotelle e un bambino star degli spot per il suo essere grasso, ma bullismo con genitori disattenti». 
Affronta di petto un tema grande, non facile da maneggiare al cinema ad esempio: il lutto dell’anima e il suicidio. 
«Il lutto, infatti, è un tema enorme: ha fatto caso che non c’è un termine che definisca chi perde un figlio? Si parla di orfani e vedovi ma per la mia poliziotta che piange sulla tomba della figlia non c’è una definizione. Metà della popolazione pensa almeno una volta di farla finita. Ma tra i quattro aspiranti suicidi c’è una storia che ti prende alla gola». 

Quale? 
«Il suicida bambino: incredibile scoprire il numero di bambini che si suicida. Spesso questo è un fenomeno legato al bullismo e a genitori che non ti sanno capire, accogliere: sono esseri umani fragili, questi, basta un colpetto per mandarli in frantumi. E il bullismo è un faro che potrebbe illuminare i sensori che i genitori non attivano verso ragazzi. Io sono anche testimonial della campagna nazionale contro il bullismo perché serve dirsele queste cose». 

New York, perché? Cos’è per lei quella città che sembra ispirarla molto? 
«Non l’ho scelta per il vezzo di raccontare una storia all’estero: le storie internazionali sono quelle che parlano a tutti, Perfetti sconosciuti sta incassando in tutto il mondo e si svolge in un appartamento dei Parioli. Nel romanzo l’azione è surreale e poteva succedere solo dove tutto è credibile: forse è l’unica città al mondo, New York, dove se racconti che c’è un negozietto nell’Upper East Side in cui trovi un tizio che ti dà una seconda opportunità, ti viene di crederci. C’è una magia... credibile. A Roma sarebbe stata meno magica. In Italia solo Milano, oggi, avrebbe potuto accoglierla. Roma, purtroppo, è tradizionale e... prevedibile». 

Napoleon, un motivatore, un manager di successo si sta buttando da Manhattan Bridge, quando interviene l’angelo... Ne parliamo nei giorni dei fatti di Francavilla. 
«Il pensiero all’immagine del cavalcavia l’ho fatto, sa. Sarebbe servito l’angelo senza nome del mio racconto. Sono tante le storie di persone che scelgono questa via d’uscita: l’uscita d’emergenza del salto nel vuoto. Poi, in realtà, la strada per farlo è lunga, per fortuna». 

Nelle sue storie c’è spesso il dilemma esistenziale, senza scorciatoie spirituali. 
«Era una storia difficile, concettualmente, da raccontare questa. Parlare della vita e della bellezza della vita è molto rischioso per i narratori: sei sempre sul filo dello stucchevole, qui un uomo deve fare innamorare della vita persone disperate, totalmente. Lo fa con l’arma delle curiosità: cosa succede dopo? Cosa ti perdi, se molli? Nessun dogma». 

Eppure... Spiritualità, il magico, il mistero nel quotidiano: pensiamo al Miracolo di Ammanitti, a Young Pope di Sorrentino, The Place. E questo romanzo con un angelo playmaker. 
«La ricerca del soprannaturale nel quotidiano è una risposta attuale alle scelte della grande commedia all’italiana di 50 anni fa: si partiva dalla vita reale per far scaturire i grandi drammi; quel pragmatismo oggi lo si racconta diversamente. C’è un filo rosso tra film e racconti diversi: qui raccontiamo lo spirituale quotidiano. Non esplora i massimi sistemi, Young Pope. Spariglia, il papa rockstar; nel Miracolo vediamo il dogma farsi quotidiano, davanti a tutti una statuetta fa il miracolo, non si tramanda il miracolo, si sostanzia. In The Place c’è una persona, non una allegoria, che fa da catalizzatore di sentimenti fortissimi. E’ pragmatismo spirituale più coerente di tempi in cui c’è bisogno di riferirsi a qualcosa di più alto, partendo dal vissuto reale». 

Un romanzo molto… musicale, questo. 
«Tanta è la musica perché la musica può salvarti la vita, agisce ad un livello più profondo, la musica. Tante scelte nella vita, e non lo sappiamo, sono legate ad una felicità che ti regala la musica. L’angelo fa il dj esistenziale nella settimana regalata ai suicidi, canzoni non didascaliche, ma giuste. Father and son per la mamma-poliziotta che perde la figlia. A volte non ci pensi quanti significati ci sono in una canzone, le canticchi distratto, ma quel significato viveva già dentro di te». 

Usciamo dal merito, torniamo al metodo: penna o cinepresa? «Alla fine per me la creazione di storie avviene sempre per immagini, lo devo ammettere. Prima “vedo” la scena, poi ci metto le parole, che alla fine sono i dialoghi. Nel libro c’è la scena in un drive in con immagini in sequenza per i quattro suicidi, che vorrei proprio realizzare quando di questo libro farò un film. La curiosità di vedere l’effetto che fa stimolare anche me. 

Vengo anch’io no tu no: tu che guardi il tuo funerale, e vedere di nascosto l’effetto che fa. Me la perdona la citazione di Jannacci? 
«Il racconto nasce da qui, da quel pensiero: anche nella canzone amara e geniale, di Jannacci c’è questo pensiero profondo. Tanti hanno questa fantasia: essere presenti al proprio funerale, come continua la vita dopo di noi. Forse è così che si rivaluta ciò che facciamo in vita». 

È vero che, oltre al progetto di Il primo giorno della mia vita, c’è un film sulla coppia? 
«Dopo averli “scoppiati” in Perfetti Sconosciuti, provo a riaccoppiare un uomo e una donna. A Milano, una New York a 3 ore dal mio quartiere». 

La curiosità come antidoto: umano, troppo umano. 
«A un certo punto un personaggio riflette sulla sostituibilità, ma anche sull’unicità di noi e di quelli che popolano e popoleranno la nostra vita.
Di come passeranno, passeremo. Senza il confronto con la morte non capiresti la limitatezza del tempo a disposizione: l’idea della fine è uno stimolo a fare, abbiamo una data di scadenza, come il latte, ma non ce l’abbiamo indicata sulla confezione noi. E allora relativizzare, questa è la parola chiave, per essere meno presuntuosi. Questo romanzo sta tutto in un aforisma: abbiamo solo due vite, la seconda comincia quando ci rendiamo conto di averne una sola.

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