«Sono contro le armi ma rispetto i guerrieri», applausi commossi per “Hacksaw Ridge” di Mel Gibson

Mel Gibson
di Gloria Satta
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Lunedì 5 Settembre 2016, 00:43 - Ultimo aggiornamento: 01:05
VENEZIA Travolge la platea della Mostra l’epico, potente “Hacksaw Ridge” (fuori concorso) diretto da Mel Gibson e interpretato da Andrew Garfield. In un mondo dominato da conflitti e violenza, applausi liberatori e commozione accolgono la storia vera di un eroe pacifista: Desmond T. Doss, medico e primo obiettore di coscienza americano che durante la battaglia di Okinawa, nel 1945, salvò 75 compagni armato solo della sua fede avventista e per questo ricevette la più alta onorificenza militare dal presidente Truman.

«Un uomo del tutto ordinario che ha fatto cose straordinarie», spiega Mel, 60 anni, sbarcato al Lido con un barbone bianco da predicatore e un entusiasmo incontenibile. Non c’è spazio per le provocazioni o le dichiarazioni politicamente scorrette del passato. Gibson preferisce parlare di “Hacksaw Bridge” che uscirà il 19 gennaio 2017. 

Perché ha voluto raccontare la storia di Doss?
«Sono rimasto stupito dalla portata del suo sacrificio. Nel modo più puro e disinteressato, Doss rischiò più volte la propria vita per salvare quella dei fratelli. Allo scoppio della guerra, era ansioso di servire la patria ma la violenza contrastava con le sue convinzioni religiose e morali. Si rifiutò categoricamente di toccare le armi ed è stato perseguitato. È uno dei massimi eroi di tutti i tempi».

Proprio lei, l’impavido Braveheart, è diventato pacifista?
«Odio la guerra e le armi, sono d’accordo con Obama che cerca di limitarne l’uso in America. Ma rispetto i guerrieri, che si sacrificano per difenderci. Non esistono conflitti giusti. Noi però abbiamo il dovere di amare e stare vicini ai reduci, che spesso tornano dal fronte con ferite insanabili, a volte si suicidano...».
Come mai Doss, scomparso nel 2006, aveva bocciato tutti i progetti di portare la sua vita sullo schermo? 
«Affermava che i veri eroi erano altri, quelli che avevano rischiato la vita sul campo. In un cinema invaso da ”supereroi” immaginari, ho pensato fosse venuto il momento di celebrarne uno vero mettendo il mio linguaggio cinematografico al servizio della sua storia e della sua figura».

Che criteri ha seguito nel dirigere le scene di battaglia?
«La preoccupazione più importante, in questo tipo di sequenze, è dare l’idea del caos. Ho voluto dimostrare che quel posto fosse il peggiore mai visto dagli uomini, l’inferno. Ma bisogna anche rendere le cose comprensibili allo spettatore: chi combatte chi, cosa sta succedendo... Devi essere chiaro, permettetemi l’accostamento, come se commentassi una partita di calcio».

E gli attori? Come li sceglie di solito e che indicazioni ha fornito a Garfield e compagni?
«In questo caso ho fatto un passo indietro e li ho lasciati fare. L’avete visto con i vostri occhi, sono stati bravissimi. Se decido di scritturare un attore non vado a leggerni il curriculum, mi basta un incontro o una chiacchierata via Skype. Quando ho percepito l’interesse di Garfield, la sua forte voglia di prendere parte al film ho capito di aver trovato l’uomo giusto e mi sono sentito al sicuro».
 
Ora che è invecchiato, pensa di essere diventato un attore migliore?
«Da giovane ero più bravo a interpretare ruoli da giovane, poi ho acquisito molta esperienza. Ormai credo di aver raggiunto un buon mix tra consapevolezza e talento. Ma quando c’è da fare un passo indietro per lasciare la scena ai più giovani, non ci penso due volte».

Come definirebbe oggi il suo rapporto con Hollywood?
«Come lo definiscono un po’ tutti: di pura sopravvivenza».
 
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