Francesca Neri, 25 anni senza Troisi: «Massimo, stella fragile e immortale»

Massimo Troisi e Francesca Neri
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Martedì 4 Giugno 2019, 01:36 - Ultimo aggiornamento: 07:26
Sensibile, ironico e insieme malinconico, innamoratissimo delle donne. Era la persona più fragile e più creativa con cui abbia mai lavorato». Così Francesca Neri ricorda, con affetto e rimpianto, Massimo Troisi che se ne andava appena 41enne proprio 25 anni fa, il 4 giugno 1994, tradito dal cuore malato. Oggi l’attrice, perfettamente ristabilita dopo i problemi di salute affrontati negli ultimi mesi, traccia un ritratto intimo del collega con cui, nel 1991, girò Pensavo fosse amore... invece era un calesse: un’irresistibile commedia sentimentale i cui protagonisti si prendono e si lasciano tra gelosie e ripicche, e penultimo film di una carriera culminata nel successo postumo de Il Postino. Oltre a non aver perso la sua freschezza, Pensavo fosse amore... «riflette bene», spiega Francesca, «la filosofia di Massimo sulla coppia».

Cosa intende dire?
«Quando il suo personaggio dice che l’uomo e la donna sono troppo diversi per stare insieme, esprime una ferma convinzione di Troisi. Lui mi confidò che all’inizio di ogni storia d’amore desiderava sposarsi e avere figli, ma poi finiva puntualmente per ricredersi».

Perché?
«Sosteneva che le donne sono troppo gelose, possessive, esigenti e lui non si sentiva alla loro altezza. Ma gli piacevano da morire e, sapendo forse che gli restava poco da vivere, non si negava conquiste ed emozioni. Quando lo conobbi, si stava lasciando con Clarissa Burt che non tollerava il suo successo con le ragazze: non gli davano pace, si presentavano a frotte anche sul set».

Perché la scelse come protagonista del film?
«Mi aveva scoperta nel dramma erotico di Bigas Luna Le età di Lulù e, scherzando, mi disse che voleva diventare un sex symbol come me. In realtà aveva visto nei miei occhi la sua stessa malinconia. Diventammo subito amici».

Cosa ricorda della lavorazione?
«L’entusiasmo incontenibile dei fan di Massimo. Giravamo a Napoli dove lui era popolare come Maradona e veniva assaltato dalla folla. Da una parte ne era felice, dall’altra viveva questo enorme successo come un disagio. Era riservatissimo, refrattario a qualunque presenzialismo o mondanità. Finito il lavoro sul set, ci chiudevamo in albergo dove una sera si presentò Pino Daniele».

Per quale motivo?
«Per proporre a Massimo il brano che aveva composto per il film: Quando, destinato a diventare una hit. Accennò il motivo alla chitarra e io ricordo bene Troisi che ascolta, annuisce e cambia qualche parola qua e là».

Massimo era un regista molto esigente?
«Amava fare le cose alla perfezione ma sul set non c’è mai stata una tensione, un’arrabbiatura, un litigio. Lo amavano tutti. Non riusciva a dare ordini nemmeno ai camerieri filippini che si prendevano cura della sua villa ai Parioli. Era un vero signore, elegantissimo nella semplicità che gli veniva dalle origini modeste».

Perché, secondo lei, la sua arte è immortale?
«Massimo ha trasferito nel cinema la sua visione tragicomica della vita. Riusciva a far ridere anche delle situazioni disperate grazie a quel doppio registro che oggi i comici non possiedono più».

Era contento della sua carriera?
«Adorava le commedie come Non ci resta che piangere, girato in coppia con Roberto Benigni, ma moriva dalla voglia di interpretare film “seri”, magari sfondare a Hollywood. Per questo considerava le esperienze con Ettore Scola (Splendor, Che ora è?, Il viaggio di Capitan Fracassa) il punto più alto del suo lavoro di attore».

Siete rimasti amici dopo le riprese di “Pensavo...”?
«Sì, lui prese a cuore la mia carriera. Mi spinse a rifiutare Puerto Escondido e un film di Pupi Avati. Ma, pur essendo “geloso” di Carlo Verdone, mi consigliò di fare Al lupo, al lupo».

Quand’è stata l’ultima volta che l’ha visto?
«Negli ultimi giorni della sua vita, a Ostia, in casa della sorella Annamaria dove sarebbe morto. Per questo motivo non sono mai riuscita a vedere Il Postino. Mi fa troppo male».
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