Venti anni fa il delitto/L'Intervista
La madre di Marta Russo: «Mentre
uccidevano mia figlia ero lontana
ma me lo sentivo»

Venti anni fa il delitto/L'Intervista La madre di Marta Russo: «Mentre uccidevano mia figlia ero lontana ma me lo sentivo»
di Cristiana Mangani
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Domenica 7 Maggio 2017, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 9 Maggio, 08:42

Venti anni da quel giorno, il 9 maggio del 1997. Nella casa di Aureliana e Donato Russo, Marta è ovunque. Viva e presente, nelle foto, nei quadri, ma soprattutto nei pensieri e nelle opere. «Come posso essere utile agli altri?» aveva scritto su un diario. E in una sorta di trasposizione dell’anima, mamma Aureliana ha fatto suo quel messaggio e ci ha trovato dentro la forza per andare avanti.

Aureliana, chi era Marta?
«Era una ragazza molto sensibile, riflessiva, coccolona, le piaceva stare a casa. Certo, vedeva anche le sue amiche, i suoi amici, ma spesso, mentre studiava per gli esami a Giurisprudenza, mi diceva: “mamma, mettiti qui accanto a me, così ti ripeto la lezione”. Non andava tanto volentieri in facoltà».
 

 


Fino a quella mattina...
«Il destino. Mi ha detto: “oggi devo andarci proprio, devo vedere il calendario degli esami da fare”. E’ uscita con la sua amica e quando sono arrivate alla Sapienza, hanno anche fatto una strada che non facevano mai. Lo abbiamo saputo dopo, Iolanda voleva passare da lì perché c’era un bar da dove poteva telefonare al suo fidanzato. Ho rinunciato al mio lavoro per stare con Marta e poi anche con Tiziana. A volte ho pensato che avevo fatto male, me ne ero pentita, ma chi può immaginare come va a finire la vita?!».

Come ha saputo quello che era successo?
«E’ stata una cosa strana. Ero appena rientrata dopo aver fatto la spesa. Dopo due giorni avremmo dovuto festeggiare il compleanno di Tiziana. Avevo buste piene di roba, anche di surgelati. Ma come ho messo piede in casa, ho come avuto dei presentimenti, delle sensazioni, non so spiegare. Ho mollato le buste per terra, e ho reagito in modo incomprensibile: ho preso la gatta e l’ho portata in balcone per spazzolarla. Una cosa che non aveva troppo senso in quel momento. Come sono rientrata, è squillato il telefono».

Chi l’ha avvertita?
«Credo fossero dal Policlinico, non l’ho mai saputo con certezza. Mi hanno detto: “signora, sua figlia ha avuto problemi in questi giorni? E’ stanca? Venga, non si è sentita bene». 
E’ morta dopo cinque giorni, e voi avete scelto di donare gli organi. Come mai?
«Appena ce lo hanno chiesto non abbiamo avuto alcuna esitazione. Marta aveva quindici anni quando mi ha detto per la prima volta che avrebbe voluto essere una donatrice. Lei era così, il primo pensiero erano gli altri. E in questi venti anni ho trovato la forza per andare avanti proprio per realizzare il suo progetto. Nel momento in cui ho detto sì alla donazione, è come se mi fossi rilassata, perché quella decisione avrebbe salvato delle vite e avrebbe rispettato il desiderio di Marta. Queste due cose insieme mi hanno aiutata molto e hanno permesso che il forte legame che ho sempre avuto con mia figlia, non si spezzasse, anche dopo la sua scomparsa. E lei è sempre con me, mi è rimasta accanto, e mi guarda contenta da lassù per il lavoro che abbiamo fatto e che continuiamo a fare per alimentare la cultura della donazione».

C’è un’associazione a nome di Marta Russo, ci sono scuole, iniziative, premi: sua figlia non è stata mai dimenticata.
«Siamo stati un po’ i pionieri della donazione, non c’era una legge in quegli anni, e ora l’Italia è avanti, siamo tra i primi. E questo grazie al nostro lavoro e a quello delle altre associazioni. E’ una fatica, un grosso impegno, ma quando vai nelle scuole, racconti la storia di Marta, solleciti l’attenzione dei giovani e poi loro ti mandano i lavori, capisci che hai fatto veramente qualcosa di buono. Guardi qui quanti quadri, questo ha sei stelle piccole e una più luminosa. Sono le persone che hanno ricevuto gli organi di Marta e che vivono grazie a lei».

E’ mai tornata all’università?
«Ci sono tornata per diversi anni, in occasione dell’anniversario. Ma ora non riesco a metterci più piede. E’ come se quel pavimento fosse infuocato. Non ci riesco proprio».
Ha mai avuto dubbi sull’esito delle indagini e del processo? «Mai - si irrigisce - Del processo non vorrei parlare perché ci sono stati tre gradi di giudizio. Avrei risposto se ancora ci fosse stato da trovare il colpevole. Ma in questo caso, giustizia è stata fatta, sono stati bravissimi gli investigatori, non hanno lasciato niente di intentato. Anche se, come diceva un avvocato, non c’è la certezza della pena, e si esce subito dal carcere. Io dico solo: se quella è la pena va scontata. Niente altro».

Scattone e Ferraro le hanno mai chiesto scusa?
«Nessuno ci hai chiesto scusa per quello che è successo. Nessuna vicinanza».


 

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