Il Maestro Daniele Gatti e il progetto del Teatro dell’Opera:«Tra me e Roma amicizia esclusiva»

Il Maestro Daniele Gatti e il progetto del Teatro dell’Opera:«Tra me e Roma amicizia esclusiva»
di Simona Antonucci
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Sabato 31 Dicembre 2016, 00:30 - Ultimo aggiornamento: 5 Gennaio, 00:36
«Potente». «Ammaliante». «Prezioso». Si è parlato a lungo del “Tristan und Isolde” diretto da Daniele Gatti per inaugurare la nuova stagione al Teatro dell’Opera di Roma. Un’ovazione ha salutato l’evento la sera della prima. E un’ovazione ha accompagnato sul podio il maestro milanese al suo debutto al Costanzi. Uno scambio generoso, con l’orchestra e con il pubblico romano, che ha tracciato le coordinate per il cammino futuro: un progetto articolato in tre anni, con le prossime inaugurazioni di stagione affidate alla sua bacchetta.
 
Come ha affrontato questa intensa permanenza romana? E come è arrivato a questa decisione?
«Impossibile non tenere conto dell’atmosfera che si era creata e impossibile ignorare tutte le ipotesi costruite intorno al mio impegno più o meno stabile con il lirico della Capitale. Ma certe decisioni meritano tempo e un’attenzione particolare. E simili discorsi vanno fatti con molta cautela. All’inizio, ho lavorato affinché gli sforzi fossero indirizzati sulla preparazione del Tristano, per riportare l’accento su questo monumento del repertorio. E ho trovato tutte le condizioni favorevoli per potermi impegnare sul risultato».

Che è stato un Wagner avvolgente. Indimenticabile. Quanto ha contato il risultato sulla sua scelta di tornare?
«Con l’orchestra il lavoro è stato lungo e duro, ma assolutamente in progressione. E ci tengo a sottolinearlo. Con il sovrintendente Carlo Fuortes e con tutto il teatro è nata una collaborazione proficua, direi un’amicizia. Ma non va sottovalutata l’entità del capolavoro proposto per l’inaugurazione. Una scelta quasi in controtendenza verso chi si attende inaugurazioni più “popolari”. Insomma, gran parte del merito spetta a Wagner. È andata bene soprattutto grazie a lui. E ora sì, possiamo guardare avanti e alle future produzioni».

Tornerà quindi molto presto.
«Abbiamo scelto “La damnation de Faust” di Berlioz, con la regia di Damiano Michieletto per aprire l’anno 2017/2018 del lirico romano e Verdi per dare il via al calendario del 2018/2019. E poi ancora Verdi per l’apertura del 2019/2020...».

La Fondazione annuncia: il maestro ha accettato di diventare parte fondamentale del nostro progetto artistico.
«A febbraio comincerò a Milano le prove dei Maestri Cantori di Wagner che andrà in scena alla Scala in primavera, ma in futuro, nei prossimi tre anni, per quanto riguarda le produzioni operistiche in Italia, l’unico teatro con il quale avrò rapporti sarà l’Opera di Roma».

Una scelta particolare. Allora diventerà il nuovo direttore musicale del Teatro dell’Opera?
«Al momento no. Sono il direttore principale dell’orchestra del Concertgebouw di Amsterdam e per questi primi anni l’incarico mi impegna moltissimo. Ho preferito, quindi, non accettare ulteriori posizioni stabili, poiché è mia convinzione che il titolo che si assume debba essere onorato e giustificato da una presenza vera, costante, significativa. Se in questo momento non posso garantire al teatro di Roma questo tipo di impegno, il dirigere le tre prossime inaugurazioni rappresenta un indirizzo e un progetto fortemente condiviso con il sovrintendente, che tutti noi speriamo sia anche un volano positivo per il teatro. È un sentirsi vicini all’Italia e a Roma. Io la considero una sorta di amichevole esclusiva».

Verdi, Wagner... Lei è un direttore latino che riesce a spaziare in mondi diversi a un livello di totale eccellenza. Qual è stato il percorso?
«Non è un percorso. Direi che mi sento parte di una linea di sangue che, da Toscanini in poi, ha messo i grandi direttori italiani in una situazione di privilegio e grande stima nel mondo. Non parlo di me. Ma di Giulini, Sinopoli, Abbado, Muti e Chailly. Maestri che, oltre a lasciare tracce indelebili nel nostro repertorio lirico, si sono fortemente distinti nel grande repertorio sinfonico internazionale. Purtroppo, è un fatto che il mondo musicale etichetti con superficialità i direttori d’orchestra in “sinfonici” o “d’opera” ed è molto facile che un giovane direttore italiano inizi la sua carriera invitato a dirigere solo repertorio lirico, poiché proviene dal Paese della tradizione lirica. Con un po’ di attenzione e anche di fortuna, all’inizio, sarebbe auspicabile per un giovane direttore riuscire a mantenere un saggio equilibrio tra i due generi. Personalmente considero la musica nella sua completezza senza alcuna divisione».
Parliamo anche di interpretazioni registiche: qual è il giusto equilibrio?

«Un’opera lirica viene scritta da un compositore che spesso si avvale di un librettista. Se parliamo quindi di teatro in musica, l’essenza sta principalmente nella musica, e da lì si deve partire per impostare un’interpretazione».

L’opera è un genere globalizzato. Esiste ancora uno stile italiano?
«Buon gusto può sembrare un’espressione astratta. Ma è riconoscibilissima. Lo stile italiano è generalmente caratterizzato dal buon gusto. Che non è il bello a tutti i costi, ma una sorta di equilibrio interno: nel nostro caso da un’interpretazione comprensibile e che respiri con il fatto musicale».

Si parla spesso di buon gusto anche facendo riferimento ai direttori e al loro gesto sul podio: tra il ballo sfrenato e il seggiolino, che cosa è veramente necessario?
«Ma... Un bravo direttore lo si dovrebbe apprezzare all’ascolto e non farsi fuorviare dalla sua gestualità. Però, sto al gioco e rispondo! C’è un gesto diretto soltanto all’orchestra. Un gesto diretto all’orchestra, ma che strizza l’occhio al pubblico. E un gesto diretto soprattutto al pubblico. Con la maturità si riesce a capire cosa, in tutti i sensi, serve veramente... E mi sembra superfluo indicare quale delle tre ipotesi sia la più auspicabile... Ma siamo stati tutti ragazzi!».

Può stare al gioco ancora un minuto? C’è un’eroina da Verdi, Puccini, Mozart che le ha fatto battere il cuore?
«Che mi ha fatto innamorare? Ma non sono io che mi devo innamorare. È il pubblico. Io sono lì a modulare questi affetti, quasi a controllarli e indirizzarli per far sognare e far perdere la testa agli spettatori».
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