Lino Banfi: «Me lo disse il Vescovo: il tuo destino è far ridere»

Lino Banfi: «Me lo disse il Vescovo: il tuo destino è far ridere»
di Malcom Pagani
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Domenica 27 Agosto 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 1 Settembre, 16:18
L’oppio dei popoli: «Mio padre Riccardo e suo fratello coltivavano porri e cipolle a Canosa per poi rivenderli in Francia. In mezzo al campo erano cresciuti spontaneamente migliaia di papaveri e le donne del paese chiedevano permesso per raccoglierli, portarli a casa e mettere i semi in un pezzo di stoffa da far succhiare poi ai bambini irrequieti al posto dei ciucci. Era oppio. Noi ragazzini eravamo tutti rincoglioniti e da “drogheti”, dormivamo sempre». Lino Banfi sostiene che nella vita «sia comica ogni cosa» e che: «Nonostante la vecchiaia sia una mezza fregatura» non esista soddisfazione più grande dell’affetto che riceve: «È come un amplesso. L’altro giorno mi hanno fermato per strada: “sei il nostro Lino di Mameli”. Ero in estasi». A Fregene, l’estate del signor Pasquale Zagaria, 106 film, 81 anni a luglio, un nome d’arte scelto a caso tra i registri scolastici poi diventati materia di culto per racconti ambientati tra insegnanti, ripetenti e liceali impegnate a sedurre i professori, è una veranda tra silenzio, zanzare e ricordi che pungono: «A restituirmi la maschera che mi ha fatto conoscere come comico fu un incidente di macchina».

Come andò? 
«Facevo la scuola alberghiera al Grand Hotel Regina di Ospedaletti. I colleghi sembravano contenti: “Puoi avere ottime mance, Pasquale. I clienti sono facoltosi, spesso vengono anche Onassis e Maria Callas”. Non avevo una lira e nei tempi morti facevo il giullare per gli ospiti dell’albergo. Mi agganciai a un gruppo di milanesi. Mi sentivano parlare pugliese e ridevano. Una sera mi proposero di seguirli al Casinò di Mentone. “Quanto mi date?” chiesi e il capobanda mi promise un sacchetto di fiches. Di giocare d’azzardo non mi importava niente: appena arrivo - pensai - le cambio e mi infilo i soldi in tasca».

Invece? 
«Il guidatore aveva bevuto e mi chiese di sedere davanti con lui per intrattenerlo con qualche battuta, ma la Lamborghini era strettissima, la velocità sostenuta e quando gli altri protestarono: “Perché deve star comodo solo lui?” mi affrettai a rimettermi dietro. Del dopo - eravamo nei pressi di Arma di Taggia - mi ricordo solo il muro che si avvicinava. Lo prendemmo in pieno. Morirono due persone, io venni sbalzato fuori dal finestrino e finii a quattro metri di distanza. Mi salvai per miracolo. Guarii in una settimana però poi accadde una cosa strana».

Quale? 
«I ciuffi dei capelli rimanevano nel pettine, a centinaia. E il peso aumentava a dismisura. Andai in ospedale per capirne di più e mi dissero che forse l’incidente aveva scatenato uno strano processo al mio corpo. Mi trasformai, presi 12 chili in due mesi e quando mi venne a trovare mio fratello quasi non mi riconobbe. Fu una sofferenza e uno stupore. Oggi ho i miei complessi e anche se in realtà sono soltanto grasso, mi sento sempre grassissimo. Aldo Fabrizi me lo rimproverava: “Viè al mercato con me così te senti Alain Delon e la smetti di rompe li coglioni”».

Da ragazzo era magro? 
«Non voglio esagerare, ma non ero male. Avevo un vitino piccolo e pensavo di fare carriera interpretando il belloccio».

È andata diversamente.
«Il Lino Banfi che siete abituati a vedere nasce nei mesi successivi all’incidente. Forse era destino. Forse dovevo far ridere e aggiungere al mio personaggio una fisicità tutta sua. Papà diceva che avevo la faccia da cardinale, mio zio rilanciava: “E perché non direttamente da Papa?”».

Cosa desiderava a vent’anni?
«Non tornare a casa dando l’impressione di aver perso. Non ritrovarsi al bar della piazza a farsi domandare le stesse cose di sempre: “Allora Pasquale, che mestiere vuoi fare?”, “L’attore”, “Sì, ma di lavoro vero?”».

Lei frequentò il Seminario. 
«Ad Andria. Non ero strutturato per prendere i voti. Il Vescovo lo capì prima di tutti e quando me ne andai mi consolò: “Zagaria, non devi piangere, il tuo destino non è fare il sacerdote, ma far ridere le persone”. Alle recite in cui interpretavo Giuda, San Giovanni e San Pietro, in effetti, ridevano tutti».

Suo padre assecondò il suo desiderio di recitare? 
«Papà aveva la terza elementare, ma diceva con orgoglio: “È come una laurea”. “Perché papà? Sempre una terza elementare è”, “Eh no, io l’ho conseguita sotto le armi”. Aveva studiato mentre faceva il militare ed era rimasto ignorantissimo. Ma al tempo stesso era un umorista, un fine botanico e un vero filosofo: “Tutti quanti se ne vanno in America - mi diceva - troppo luntana. Io me ne vado da Andria a Canaus e sto in grazia di dio”».
Com’era “Canaus”? 
«Era un paese. E i paesi sanno essere cattivi. L’unico gay dichiarato - chissà quanti altri ce n’erano celati - si chiamava Menguccio. Viveva di espedienti, raccattava quattro lire portando agli altri i pacchi della spesa fino a casa ed era sostanzialmente emarginato. A papà dispiaceva: “Sò brutti cristieni, i canosini - diceva - Menguccio è bravo, che ce ne importa a noi di quello che fa a letto?”. E a differenza degli altri padri, che con Menguccio avevano alzato un muro e impedivano ai ragazzini di avvicinarsi e di parlargli, mi lasciava libero. Menguccio aveva una sorella, Maria, che portava la barba e somigliava a un maschio e la sua predilezione per i maschi, senza strumenti culturali, l’aveva spiegata con la genetica: “‘Sti strunzi non capiscono che io sono nato così e che quando vedo una coppia mia sorella guarda la femmina e io l’uomo. Io e mia sorella evidentemente abbiamo avuto lo scambio dei mormoni”. Diceva proprio così, Menguccio: “Lo scambio dei mormoni”».
Suo padre aveva la terza elementare, ma era di vedute aperte.
«Gli piaceva discutere e quando parlava, voleva essere ascoltato. Mi ha regalato la curiosità. E la mia vita è stata sempre piena di “perché?”. Ascoltavo, selezionavo e poi setacciavo il meglio, come faceva lui con i semi delle sue piante. Durante la guerra, la ditta di famiglia aveva interrotto le esportazioni con la Francia, porri e cipolle si erano “incigliati”, e l’impresa era miseramente fallita. I soldi erano pochissimi e del mio mestiere, mio padre temeva soprattutto l’incertezza: “Un povero che insegue un miracolo rischia di diventare in un istante un miserabile”. Papà è morto nel ’75 e per fortuna, un po’ dei miei film ha fatto in tempo a vederli. Passando da Canosa, Domenico Modugno gliel’aveva profetizzato: “Riccardo, tuo figlio diventerà un grande artista, puoi anche smettere di salutare tutti levandoti il cappello perché adesso se lo devono togliere gli altri”.
Nei primi anni lei ha fatto molti lavori umili.
«A Milano ho dormito negli scompartimenti dei treni fermi e nelle case ancora in costruzione. Consigliato da un clochard, mi sono anche fatto togliere le tonsille per fare qualche pasto gratis in ospedale. Dopo un paio d’anni in Lombardia mi trasferii a Roma e mi feci raggiungere da Lucia, mia moglie. L’ho conosciuta che ero adolescente».
Occasioni romane?
«Mi feci conoscere all’Ambra Jovinelli. Il pubblico era tosto e te lo dovevi conquistare poltrona per poltrona. Per arrivare fino al loggione, in mancanza di microfoni, dovevi quasi urlare. Leone Mancini, con i suoi occhialetti sulla testa pelata e Graziano Jovinelli, il figlio del fondatore Giuseppe, furono generosi. A Graziano piacevo perché ero semplice: “Pasquale non si perde mai nei congiuntivi o nei condizionali”».
Quando ha iniziato a usare il pugliese come una lingua comica? «Il guizzo lo ebbi al Puff di Lando Fiorini. Il cabaret non era l’avanspettacolo. Sui divani sedevano i ricconi annoiati e le signore ingioiellate, il contrario del pubblico che all’Ambra Jovinelli pretendeva il suo e sapeva come farsi capire: “Ahò facce ride, mortacci tua”. Capii che al Puff bisognava scegliere un linguaggio diverso».
Come andò?
«La prima sera improvvisai. Salii i gradini e mi ricordai dei ricchi del paese che quando i contadini, incerti sulla terminologia, dicevano “cravattola” invece di cravatta, si davano di gomito. Così iniziai in pugliese: “Non so che chezzo ci faccio qui e di conseguenza che chezzo devo dire”. Ci fu qualche sorriso. Avevo acceso la platea, ma dovevo trovare ancora la chiave. Proseguii: “Un’ora fa ero con un pubblico di un certo lignaggio: puttène, ricchioni, militèri, tatuèti, disoccupèti e ora, scusate la franchezza, mi ritrovo con quattro morti di fème con le pellicce false”. Ci fu un boato».
All’Ambra Jovinelli l’aveva scovata Lando Fiorini.
«Aveva litigato con Enrico Montesano: “Devi sape’ che è er Puff che fa li personaggi, no i personaggi che fanno er Puff. Pensi che scherzo? Domani vado all’Ambra Jovinelli, prendo er primo stronzo che trovo e lo metto ar posto tuo”. Il primo stronzo ero io».
Qual è la dote più importante per un attore? 
«La pausa. In politica, dove bravo come Craxi nell’arte non c’era nessuno, e anche nello spettacolo. Avrebbero dovuto inventarla, la laurea Honoris Pausa. Chi legge e non ti guarda in faccia o recita un copione, perde sempre davanti a chi sa aspettare il momento giusto per dire le cose».
Lei ha saputo aspettare? 
«Ho sempre pensato che ci fosse spazio per tutti, ma ci fu un momento, sarà stato il 1965, in cui per gli stenti stavo per mollare tutto. Ero andato dal senatore Onofrio Jannuzzi, potente democristiano dell’epoca, in cerca di una raccomandazione: “Che diplomi hai?” “Nessuno, mi sono fermato alla prima liceo”. “È un problema” disse lui e poi con la promessa di affrontare le scuole serali, mi mandò a parlare con un signore della Cassa di Risparmio di Roma. Avrei fatto 6 mesi da messo e forse dopo avrei avuto il mio impiego alla Cassa. Nella settimana che precedette l’inizio del lavoro feci un rito iniziatico. Presi la Bianchina ammaccata che Ciccio Ingrassia chiamava “la caldarrosta”, imboccai la Tiburtina e con copioni e locandine dell’avanspettacolo feci un bel falò. Poi tornai a casa. Alla vigilia del nuovo impegno, io e mia moglie parlammo fino all’alba: “Non devi andarci per forza, se stai così male”, “Siamo indebitati con i cravattari, devo farlo”, “Non voglio un marito infelice, può darsi che un giorno ti vada meglio”. Le diedi retta. Non la ringrazierò mai abbastanza».
Per scoprirla definitivamente c’è stato bisogno del cinema delle docce.
«È la serie b, dicevano. È un cinema sporco. In realtà tra una doccia e l’altra, era fin troppo pulito. Sono film in cui si rideva con una libertà che all’epoca forse non eravamo in grado di apprezzare. Non capolavori, ma lavori che hanno resistito nel tempo e hanno unito più generazioni. “L’allenatore nel pallone” sembra girato l’altro ieri e in vieni “Vieni avanti cretino” con Luciano Salce che mi dice: “Io giro, tu dammi lo stop” c’erano virtuosismi non scontati».
Lei recitava spesso da contraltare smanioso di bellezze inarrivabili.
«Mai litigato con un regista, ma neanche con un’attrice. In un mondo dominato dalla bellezza dei Giuliano Gemma e dei Fabio Testi, che per le attrici con cui recitavo avrebbero dato una gamba, anche se avessi voluto insidiarle, che possibilità avrei avuto?».
Lo fece?
«Mai. Edwige Fenech diceva che ero virile e le altre compagne di lavoro mi invitavano a non buttarmi giù: “Sai che in fondo in fondo, non sei male?”, “È quell’in fondo in fondo che mi rompe il chezzo”. Sono sempre stato felice della mia fedeltà. Quando incontrò me e mia moglie, si sorprese anche Papa Ratzinger: “È molto raro nel mondo dello spettacolo, la fa ridere vero signora?”. “Ogni tanto è tristarello”, “Davvero?” disse lui e io: “Solo quando sono incavolèto”».
Era mai imbarazzato dal girare certe scene?
«Una volta dovetti toccare il seno di Edwige. Ero un po’ rigido. Un elettricista si spazientì: “Guarda che non stai a cambià una lampadina”».
Chi è stato Pasquale Zagaria in arte Lino Banfi?
«Un gentiluomo che non ha avuto invidie e ha creduto tanto nel suo mestiere nei momenti felici e in quelli bui. A Canosa, dove da ragazzo andavo sul palco nelle pause della compagnia di varietà, per un breve istante, dopo un’esibizione modesta, accarezzai l’idea del suicidio con le corde di scena del retropalco. Mio fratello non mi vide rientrare in platea e mi venne a cercare: “Dove sta Pasquèle?”. Mi trovò a osservare i fili: “Che stai facendo?”, “Niente, niente”. Era un brutto pensiero. Ma fu l’unica volta».
Ha altri brutti pensieri?
«Ogni tanto penso al fatto che se avessi avuto mezzo euro per ogni copia dei dvd dei miei film sarei ricco. Non è successo perché i contratti dell’epoca prevedevano la cessione assoluta dei diritti di sfruttamento al produttore e purtroppo non eravamo pagatissimi, ma soltanto “pagatini”. Mi ero illuso che di tanti passaggi un giorno sarebbero arrivati i soldi, ma purtroppo non è arrivato un “chezzo”».
Recrimina? 
«Come potrei? Ho lavorato con Villaggio e con quell’altro grandissimo Paolo, Panelli. Sono stato premiato da Filogamo all’ora del dilettante, mentre con una calza da coscia nera di mia madre che mi copriva il volto imitavo Nat King Cole e mi sono tolto la soddisfazione di sapere che il monologo-canzone di “Fracchia la Belva Umana”, ai tempi di Antonio Manganelli come capo della polizia, era scherzosamente richiesto come prova d’esame definitiva per rilasciare la qualifica a Commissari e vicequestori: “Adesso, cantate tutti la canzone di Banfi”. Antonio mi voleva un bene pazzo. Ricambiato».
Le vuole bene anche Berlusconi.
«Aveva comprato per il Milan il calciatore Scarnecchia e mi telefonò: “Puoi suggerirgli di cambiarsi cognome? È forte, ma chiamandosi così non ce la farà mai”, “Ma come faccio?” “Raccontagli la verità. Ti chiamavi Zagaria e ora ti chiami Banfi, che ci vuole?».
Sogni di domani?
«Per restare in tema, aspetto la beatificazione. Il mio vecchio Vescovo di Andria sta per essere santificato, gli amici cardinali li ho, ho detto ai miei figli di preparare le carte».
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