John Turturro: «Sono nato recitando»

John Turturro: «Sono nato recitando»
di Gloria Satta
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Martedì 27 Giugno 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 1 Luglio, 21:28
Forse lo vedremo alla Mostra di Venezia nel nuovo film che ha diretto e interpretato, Going Places, nato da una costola de Il grande Lebowski dei Coen. Intanto John Turturro, splendido 60enne, fascino brizzolato e carriera dispiegata all’insegna del cinema indipendente, si gode un anticipo d’Italia ricevendo un premio al 15mo Ischia Film Festival diretto da Boris Sollazzo e Michelangelo Messina. «Adoro questo Paese», esclama. Richiamo delle radici: figlio di immigrati pugliesi e siciliani, John è cittadino italiano dal 2011 e ha mantenuto un forte legame con la terra degli avi senza rinunciare a costruire un percorso esemplare nel cinema d’autore americano. Sia in veste di attore, sia come regista.

I suoi personaggi, spesso all’insegna di una stralunata follia, lasciano il segno, dal folle giocatore di bowling Joses Quintana trasmigrato ora dal Grande Lebowski all’inedito Going Places fino allo scrittore in crisi protagonista di Barton Fink, dal pizzaiolo razzista di Fa’ la cosa giusta all’improbabile amante a pagamento di Gigolò per caso. Si fa presto a definirlo “attore-feticcio dei fratelli Coen”. Esponente di punta della comunità intellettuale di Brooklyn insieme con gli amici Paul Auster e Spike Lee, John è stato diretto anche da Scorsese, Cimino, Levinson, Konchalovsky, Francesco Rosi (La tregua), Nanni Moretti (Mia madre), Marco Pontecorvo (Tempo incerto con probabili schiarite). L’anno prossimo, su suggerimento dell’amica agente Isabella Gullo, allestirà un Rigoletto al Massimo di Palermo. Nel 2010 aveva dedicato il film-documentario Passione, scritto con Federico Vacalebre, alla musica napoletana. «Napoli è una fucina di talenti», dice, «e io sono un fan della scrittrice Elena Ferrante».

Perché, cosa trova di interessante nei suoi romanzi?
«Temi universali come la condizione della donna, l’amicizia, il desiderio di ribellarsi a regole oppressive, la voglia di libertà. Chi si cela dietro lo pseudonimo scelto dalla scrittrice non mi interessa. Conta la sua capacità di conquistare i lettori. E non solo donne: in America leggono Ferrante molti uomini. Sono ansioso di vedere la serie di Costanzo, ispirata ai suoi libri».

Lei in cosa si sente italiano?
«Penso di avere in comune con voi una certa sensibilità e il senso dell’umorismo. Mi piace tutto del vostro Paese e, anche se non parlo ancora bene la lingua, mi sono fatto molti amici e cerco di venirci ogni volta che posso».

È importante mantenere il legame con le radici?
«Sì, aiuta a costruire l’identità. Nel mio caso, l’Italia è legata anche ad alcune esperienze cinematografiche importanti, ai vostri registi che mi hanno diretto. Ho un ottimo ricordo anche de Il Siciliano, che girai trent’anni fa con Cimino. Il film non era un granché, ma la lavorazione resta indimenticabile».

Nanni Moretti sul set è davvero esigentissimo, al limite del dispotismo, come si dice in giro?
«Ma no, si tratta di leggende. Nanni è un grande regista e una persona amabile. Abbiamo lavorato bene, siamo diventati amici. Se mi volesse in un nuovo film, tornerei di corsa».

Hanno a che fare con le sue origini l’interesse per Questi fantasmi, che dopo il teatro intende portare sullo schermo, e la decisione di curare l’allestimento del Rigoletto?
«Non c’è dubbio. La commedia di Eduardo è attuale perché mette in scena la miseria umana: povertà, solitudine, mancanza di prospettive. Quanto all’opera, sono cresciuto con il melodramma. Mio padre e mio nonno ne andavano pazzi».

Come se la passa il cinema indipendente in America?
«Fa sempre fatica a trovare i soldi perché i produttori vorrebbero puntare solo su commedie e kolossal ultra-spettacolari. Ma il pubblico ha fame di storie vere».

Lei però ha appena interpretato Transformers.
«Che vuole che le dica, ho una famiglia da mantenere... girare quel tipo di filmoni mi permette di realizzare il cinema indipendente che mi rappresenta».

Sotto Trump la libertà di espressione ha vita più difficile?
«Il successo del presidente si deve a molti fattori, compresa la real-tv. Sapete di cosa parlo: anche voi, in Italia, avete avuto al governo Berlusconi che, come Trump, è uno showman. Ma più intelligente di lui. Se Donald partecipasse a un reality non verrebbe premiato».

Cosa l’ha spinta a riportare sullo schermo Jesus Quintana?
«La voglia di dimostrare la stupidità degli uomini che non capiscono le donne».

E lei pensa di capirle?
«Mi piacciono molto, adoro averle intorno. Mi sono sempre sembrate molto più stimolanti degli uomini. Ho tante amiche e non mi stanco di esplorare l’universo femminile. Il buon rapporto con la femminilità nasce in famiglia. Mia madre Catherine è sempre stata un’amica e una confidente».

Lei è considerato un sex symbol senza essere bello secondo i canoni tradizionali: ne ha mai sofferto?
«No, no. Il sex appeal non nasce dai lineamenti perfetti ma da un misto di vulnerabilità, umorismo, generosità. Prendiamo Mick Jagger: è un seduttore senza essere bello».

Si sente più attore o più regista?
«Ho cominciato a recitare da piccolo, negli spettacoli scolastici. Ma già allora sentivo il desiderio di dirigere. Fare l’attore mi ha reso un regista migliore».

Ha di recente interpretato un legale scalcinato nella serie “The night of - cos’è successo quella notte”? La lunga serialità offre oggi più opportunità del cinema?
«Non è importante il medium su cui le storie vengono diffuse ma la loro qualità. E The night of era una serie ben scritta, che mi ha lasciato molto tempo per prepararmi. Forse ci sarà la seconda stagione».

Ha un sogno?
«Vorrei lavorare con due attori che adoro: Toni Servillo e Isabelle Huppert».

Cos’è per lei la libertà?
«Cercare se stessi nei luoghi che non conosciamo, negli incontri con le persone più interessanti. Non si può vivere perennemente connessi alla rete».

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