Iraq, viaggio tra i profughi che pagano il pizzo all’Isis

Iraq, viaggio tra i profughi che pagano il pizzo all’Isis
di Luigi Avantaggiato
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Sabato 7 Gennaio 2017, 00:20 - Ultimo aggiornamento: 8 Gennaio, 19:35
Dal mese di giugno 2014 il governatorato di Erbil ospita migliaia di iracheni cristiani costretti a lasciare i loro villaggi e le loro città trovando asilo nella regione autonoma del Kurdistan. Il sobborgo di Ankawa, collocato a 4 km da Erbil, è divenuto un paradiso per le minoranze religiose perseguitate dal sedicente Stato Islamico. Qui migliaia di rifugiati cristiani in fuga da Qaraqosh, Mosul e dai villaggi della piana di Nineveh affrontano la vita dura dei campi profughi: vivono in case prefabbricate di pochi metri quadrati, in tendopoli o insediamenti “non formali” in cui l’accesso ai servizi e agli aiuti non è sempre garantito.
«O ti converti, o paghi, o muori». Con queste parole Hamed Kindi, prete cristiano e uno dei coordinatori del campo profughi “Asthy 2” in Ankawa, riassume quello che era l’ultimatum lanciato dai gruppi terroristici di Daesh contro i cristiani residenti in Iraq. Padre Hamed può contare sull’aiuto dell’associazione di volontariato italiana Un ponte per che si fa carico, in uno sforzo congiunto di diverse agenzie e organizzazioni umanitarie internazionali, di fornire assistenza agli sfollati e di sviluppare all’interno del campo micro attività economiche.

IL RACCONTO
«Dall’alba al tramonto circolavano per le città auto fuoristrada con dei grandi altoparlanti che ci ordinavano di lasciare la città o di sborsare del denaro per rimanere nelle nostre case», continua a raccontare padre Hamed camminando all’interno del campo profughi. La macchina del terrore perpetrata dal sedicente Stato Islamico e dei gruppi di jihadisti locali sparsi nei territori conquistati lavorava con un duplice intento: estirpare qualsiasi minoranza religiosa presente nella regione ed estorcere - attraverso la falsa promessa di lasciare illesi i cristiani - soldi, proprietà terriere e preziosi di qualsiasi fattura.

«Una mattina alle 9.00 due uomini di Daesh vestiti di nero lasciarono una busta tra le sbarre del cancello di casa. Conteneva una lettera e due proiettili. Nella lettera c’era scritto che se volevamo rimanere in casa nostra dovevamo pagare 10.000 dollari, altrimenti ci avrebbero cacciati o uccisi. C’era anche un numero di telefono da chiamare». Omar Basheer Fadi ha 64 anni. Lavorava nella scuola elementare di Qaraqosh dove insegnava matematica. Ha la voce strozzata dalla rabbia e dal dolore mentre mi sbatte davanti agli occhi la ricevuta consegnatagli dai militanti di Ansar al-Islam (in precedenza Jamaat Ansar al-Sunna, ndr), uno dei bracci armati di Daesh in Iraq. Qualche mese più tardi, la speranza di vivere in pace e di rimanere in casa propria svanisce con lo squillare del telefono. Sono i jihadisti e l’ordine di andare via è inequivocabile: «Ci hanno detto che dovevamo andare via assieme a tutti gli altri cristiani, altrimenti ci avrebbero uccisi. Abbiamo deciso di scappare, di fuggire per sopravvivere».

LA PROCEDURA
La procedura per estorcere denaro, beni e ricchezze è sempre attivata da una logica del terrore, da una serie di azioni che portano alla completa soggiogazione psicologica dell’individuo e al graduale annientamento dello stesso. Lo sa bene Haida Hanna che vive in un prefabbricato di 10 metri quadrati con suo marito e l’unica figlia che le è rimasta. Non avendo soldi sufficienti per salvare tutta la sua famiglia, l’Isis ha preso in ostaggio la figlia Safiya in un checkpoint presso l’ospedale Al Hamdaniyah in Qaraqosh. Inizia a raccontare la sua storia mostrando un opuscolo informativo distribuito da Daesh, un pieghevole contenente le “interpretazioni” del verbo del teologo arabo Muhammad ibn Abd al-Wahhab usate dai miliziani per la conversione ideologica. 

I COMBATTENTI
«Quando abbiamo vissuto sotto il controllo di Daesh, i combattenti venivano ogni giorno vicino al cancello di casa. Facevano rumore sbattendo i coltelli lungo il cancello, per attirare la nostra attenzione. A voce alta dicevano che i cristiani dovevano convertirsi oppure abbandonare la città. Per paura siamo sempre rimasti in casa, non uscivamo mai. Gironzolavano attorno alle nostre case, armati di pistola e fucili». Si sforza di non piangere mentre continua a raccontare. «Il 22 agosto 2014, un gruppo armato dell’Isis irruppe in casa nostra e ci obbligarono a lasciare la casa. In città erano rimasti solo 30 cristiani: vecchi, bambini e malati. Hanno portato un pullman e ci hanno trasportato vicino l’ospedale di Qaraqosh. Ci hanno fatto scendere e dopo averci messo in fila ci hanno perquisito per rubarci i soldi e i preziosi. Ci hanno spogliato di tutto, lasciandoci solo i vestiti che avevamo indosso. Qualche minuto dopo il capo della banda entrò nella clinica, sparò dei colpi in aria e prese in ostaggio due ragazzi e mia figlia di 23 anni che, terrorizzata, si mise a piangere. Ero disperata e cominciai a gridare di liberare mia figlia. Lui mi guardò, ma rimase in silenzio e non rispose. Fece solo un cenno col capo a un suo gregario che ci riportò immediatamente per strada, per caricarci sul pullman. Ci lasciarono molto fuori la città, in una zona desolata dove non c’erano case o persone. Ci siamo messi a camminare e siamo arrivati qui. Non sappiamo che fine abbia fatto nostra figlia».
 
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