Intervista a Ed Catmull, presidente Pixar: «I creativi salveranno il mondo»

Intervista a Ed Catmull, presidente Pixar: «I creativi salveranno il mondo»
di Azzurra Meringolo
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Sabato 11 Ottobre 2014, 00:53 - Ultimo aggiornamento: 12 Ottobre, 23:15
«Non pensate alla creatività come qualcosa che appartiene solo a pittori, scultori, scrittori e artisti strepitosi. La creatività è saper risolvere i problemi, soprattutto quelli che ci inibiscono, che tendono a paralizzarci senza farci trovare una soluzione. Il creativo è chi individua in anticipo gli ostacoli e fa il possibile per evitare che si presentino nuovamente».



È questa la ricetta della creatività di successo, quella che trasforma il 5% delle start up della Silicon Valley in semplici star. A rivelarcela è Ed Catmull, co-fondatore e attuale presidente della Pixar, che dando vita ai personaggi di Toy Story, Gli Incredibili, Nemo e Ratatouille - solo per citarne alcuni- ha arredato casa sua con un paio di statuine dell’Oscar.



Girando per Ferrara dove è arrivato grazie al Festival della rivista Internazionale, Catmull tiene sotto braccio il suo ricettario: Verso la creatività e oltre, il libro scritto a quattro mani con Amy Wallace e pubblicato da Sperling & Kupfer. Il libro svela i retroscena della fabbrica di emozioni californiana che ha permesso a genitori e bambini di farsi risate di qualità e a Catmull, di realizzare il sogno che coltivava sin da piccolo: creare il primo film di animazione fatto al computer. Gli ingredienti del suo successo di questo genio semplicemente creativo e con i piedi ancora per terra? Un ambiente di lavoro stimolante e una filosofia fondata sull’importanza del lavoro di team.



Dopo tutti i successi incassati, alla Pixar come fate a preservare la vostra vena creativa?

«Preservando i nostri lavoratori e l’ambiente attorno a loro. Uno dei problemi più grossi che abbiamo è frenare la creatività dei nostri dipendenti. Difenderli dalla loro stessa passione. Amano il loro lavoro così tanto che non si fermerebbero mai. Questo però rischia di essere controproducente. Non è sostenibile e potrebbero bruciarsi nel tempo. Per assicurarci che la loro creatività si conservi nel migliore dei modi e il più a lungo possibile, dobbiamo fare in modo che non trascurino il loro corpo e la loro vita extra-lavorativa. Il resto dipende dall’organizzazione del lavoro di gruppo. In alcune aziende ci sono dirigenti che vogliono esercitare un assoluto controllo sul lavoro degli altri. Questo ha delle conseguenze importanti, perché tutti i lavoratori hanno paura del giudizio del superiore e il timore li blocca, inibisce la loro vena creativa. Li mette in gabbia. Cerchiamo quindi di far sentire ognuno libero di esprimersi al massimo».



Come fa a trovare l’idea vincente per un film: ci pensa razionalmente o si segue il battito del cuore?

«Noi non ci concentriamo mai sulla storia. Non valutiamo se l’idea narrativa è vincente o può esserlo potenzialmente. Noi puntiamo tutto sul gruppo che la propone. Creiamo un team forte e motivato. Gli chiediamo di presentarci tre idee e decidiamo di farli lavorare su quella dove leggiamo più entusiasmo nei loro occhi. Sappiamo che ci saranno ostacoli da superare, ma l’entusiasmo che lega quel gruppo al progetto sarà la chiave di volta. Spesso il primo progetto si arena e il gruppo passa allora a lavorare sulla seconda opzione. Quasi mai si butta interamente il lavoro fatto, si prende il meglio di ogni fase, anche dei momenti in cui si inciampa in un ostacolo. Non ci fa paura sbagliare. Uno dei nostri motti è: facciamo un altro bell’errore».



Quando si confronta con chi continua ad essere preoccupato dalla crisi, riesce a trovare un briciolo di ottimismo?

«Otto anni fa, quando la Disney ha comprato Pixar, era in crisi. Andava malissimo all’epoca. Per aiutare Disney Animation a riprendersi ci siamo dovuti scontrare con una squadra dirigente che non era per nulla pronta al rischio. Ci sono voluti quattro anni per rimettere in moto il team d’animazione. Hanno dovuto cambiare il modo di pensare, accettare la sfida dell’ignoto che legavano alla presa di decisioni ritenute eccessivamente pericolose. Alla fine però i risultati si sono visti e tutti hanno iniziato ad accettare di più il rischio, come opportunità di innovazione. Non è servito cambiare il team per rimettere in sesto Disney Animation, ma è bastato per spingerlo fuori dalla sua tana di sicurezza che rischiava di mandarlo in letargo. La nostra storia mostra che la crisi va affrontata insieme. Per noi è collettiva e mai individuale. Se ci sono problemi da risolvere li prediamo tutti sulle nostre spalle. Vedendoci tutti coinvolti riusciamo ad essere ottimisti, a voltare pagina senza drammi o insuccessi personali».



Quando lei era un bambino che film guardava?

«Andavo matto per i cartoni della Disney. I miei film preferiti sono stati Pinocchio e Peter Pan perché hanno stimolato la mia immaginazione come nessun’altra cosa al mondo è riuscita a fare nella mia vita. L’hanno stimolata così tanto che quando li ho rivisti da adulto mi sono sorpreso dal non trovare dei particolari che davo per certi. Mi sono poi accorto che le cose che ricordavo non erano più lì, perché in realtà erano stato puro frutto della mia fantasia».



Quale sarà il futuro dei film per bambini?

«Tra di noi comunichiamo attraverso storie. In televisione, nei libri, nei giornali. Lo facciamo continuamente, ma con i bambini lo facciamo in modo diverso. Ci sediamo con loro per farlo. Per leggere una storia ci prendiamo del tempo e questo è il valore aggiunto dell’esperienza del racconto. Se penso alla mia infanzia, ricordo benissimo che i miei familiari diventavano facilmente parte della storia che mi raccontavano, a volte addirittura dei personaggi. I cartoni del futuro avranno storie diverse e i genitori magari le sentiranno lontane dalla loro epoca. Ma se ci pensate bene non possono esser così distanti da loro. I bambini vivono in un mondo di adulti. Sono gli adulti a fare i film rivolti a loro. Per questo le pellicole di Disney e di Pixar piacciono anche a noi.



Noi di Pixar non facciamo cartoni animati per piccoli, li facciamo per il bambino che è in ognuno di noi. Per questo nessuno si deve preoccupare di non capire le storie fino in fondo. Anche se nel tempo queste mutano, c’è qualcosa che non cambierà mai. Il racconto continuerà a trasmettere emozioni e sentimenti a tutti i bambini che ascolteranno le storie. Perché i valori stanno nell’atto del racconto».
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