Giuseppe Pignatone: «Corruzione, dopo le inchieste serve l’impegno dei romani»

Giuseppe Pignatone
di Massimo Martinelli
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Sabato 30 Marzo 2019, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 01:44
Le chiama “risposte a tweet”, cioè sintetiche, poco ragionate. E Giuseppe Pignatone le detesta. Preferisce arrivare alla conclusione per gradi, riflettendo. Soprattutto se parla di Roma, a sette anni dal suo insediamento a capo della procura della Repubblica e quando manca un mese alla pensione.

Quindi le inchieste eclatanti, gli arresti, i processi e le condanne non bastano per estirpare malaffare e corruzione?
«È fuori discussione che sia necessario soprattutto l’impegno dei romani. L’azione della magistratura non basta mai da sola a debellare fenomeni così ampi come la corruzione, o la mafia».

Più in concreto, cosa potrebbero fare? Denunciare le condotte criminose, scegliere meglio i politici che li governano, adottare condotte più vicine alla legalità?
«Non esistono ricette miracolose e tanti sono i campi di azione. Certo, dal punto di vista della repressione, sarebbero indispensabili le denunce. E io le dico che in quei casi, per la verità molto poco numerosi, in cui i cittadini hanno fatto denunce vere, e non anonimi o segnalazioni generiche, la nostra azione ha raggiunto risultati molto positivi».

Molto poche?
«Molto poche. Dopodichè, come dice il presidente Mattarella, la corruzione è un furto di democrazia. Combatterla esige lo sforzo di tutti».

Si spieghi meglio.
«Noi magistrati, le procure, la polizia giudiziaria, possiamo creare quelli che io chiamo “spazi di libertà”. Cioè possiamo rimuovere le condizioni che impediscono di agire nella legalità, come la presenza di una cosca mafiosa oppure di un sistema corruttivo, che blocca la concorrenza e uccide l’economia. Se però subito dopo non arriva la gente perbene a occupare questi spazi, non abbiamo concluso niente. Così per la mafia: se un comune viene sciolto per infiltrazioni mafiose e i malavitosi vengono arrestati, è indispensabile che i cittadini presentino una lista, si facciano eleggere, comincino un nuovo percorso civile e sociale. Se non succede, i malavitosi alla fine escono di galera e tornano a governare».

A Roma succede anche che politici e manager vengano arrestati e non si dimettono dalle cariche. Voi vi aspettereste il contrario?
«Noi cerchiamo di capire se qualcuno ha commesso un reato oppure no; i comportamenti non processuali possono essere valutati dall’opinione pubblica, dai romani, che poi si devono formare i loro convincimenti».

Lei dirige un ufficio che ha mandato a processo gli ultimi tre sindaci della Capitale, che ha ottenuto l’arresto di due presidenti del Consiglio comunale. Che opinione si è fatto della politica romana?
«Niente giudizi politici. Certo, il quadro che è uscito fuori dall’indagine sul Mondo di mezzo, aldilà dell’accusa di mafia, è un quadro corruttivo molto vasto che riguardava l’amministrazione comunale di Roma. Buona parte degli imputati non ha neanche contestato l’accusa di corruzione, hanno contestato l’accusa di mafia. Ed era interessante vedere che accanto ad esponenti della classe politica fossero coinvolti anche esponenti della burocrazia comunale e manager delle società partecipate dal Campidoglio. E le indagini e i processi per corruzione sono continuati anche dopo».

A Roma quanto pesano corruzione e mafia?
«La cifra di Roma è la complessità. Non è Palermo, non è Reggio Calabria, non è neanche Napoli, nel senso che la presenza di associazioni di tipo mafioso non è tale da condizionare la città come è avvenuto in determinati periodi storici in altre città del sud. Roma ha storicamente un problema di corruzione. Per combattere la quale - come ho già detto - è necessario uno sforzo di tutti, istituzioni e cittadini».

Ma Roma meritava l’etichetta di Mafia Capitale.
«Roma non è una città controllata dalle associazioni mafiose. Però contrariamente a un diffuso convincimento autoconsolatorio, è una città in cui già in passato hanno vissuto esponenti mafiosi importanti. Oggi le sentenze dei giudici ci dicono che a Roma sono attive alcune “piccole mafie”, come le definisce la Cassazione, e che qui operano, anche in gruppi articolati, numerosi esponenti delle mafie tradizionali impegnati nel riciclaggio, nel narcotraffico e in altre attività, lecite e illecite».

Lei fece una circolare ai suoi pm chiedendo di inserire negli atti solo le intercettazioni rilevanti. Il problema però è più ampio. Lei che pensa?
«L’argomento è complesso, perché lo stesso concetto di rilevanza delle intercettazioni è soggettivo. Mi spiego: quello che il pm può ritenere di scarsa importanza, per l’avvocato difensore può essere fondamentale. Per questo, dopo un arresto, gli avvocati hanno a disposizione tutte le intercettazioni. In quel momento le intercettazioni non sono più segrete e i giornalisti - che ne acquisiscono la disponibilità per le vie più disparate - spesso considerano rilevanti altre intercettazioni. Ecco: servirebbe una legge capace di contemperare le esigenze di accusa, difesa, pubblica opinione e della riservatezza dei singoli. È un compito complesso».

Parliamo delle attese. Chi entra in un tribunale deve aspettare anni per conoscere il proprio destino giudiziario. Non è anche questa una giustizia negata?
«Ci sono delle scelte di fondo che competono al legislatore; però bisogna essere chiari: a determinati fatti positivi corrispondono inevitabilmente dei costi».

Proviamo a spiegarlo a uno che aspetta dieci anni per essere assolto.
«Semplice. Abbiamo un sistema giudiziario basato su tre gradi giudizio, che offre il massimo delle garanzie all’imputato, più di quasi tutti i sistemi europei che certamente sono democratici e garantisti ma che hanno fatto scelte diverse. E questi passaggi, durante i quali un imputato può affermare la sua innocenza, hanno un costo in termini di tempo. E non è tutto».

La carenza di organici e la litigiosità degli italiani è la spiegazione più utilizzata.
«E anche questo corrisponde al vero. L’anno scorso la Cassazione emesso 55mila sentenze penali. In Francia e in Germania, le sentenze di Cassazione sono circa 5mila. Nei nostri tribunali per 25 anni il ministero della Giustizia non ha assunto personale. Le assunzioni sono ricominciate solo alla fine della legislatura scorsa, con il ministro Orlando».

Mondo di Mezzo, Consip, Regeni, Cucchi, Alemanno, Marino, Raggi, Tor di Valle sono solo alcuni dei casi da prima pagina trattati in questi anni. Le resta impresso un volto, una frase, una fotografia di questi anni a Roma?
«Dopo l’8 maggio, la data in cui vado in pensione, glielo dico. Ancora devo incontrare tanta gente, vorrei avere il quadro completo».

Che farà dopo l’8 maggio? Ci ha pensato?
«Intanto tornerò a Palermo. Devo ricostruire una vita dopo undici anni lontano dalla mia città: sette anni a Roma e 4 a Reggio Calabria. Voglio ripartire con una vita un po’ più normale. Con la mia famiglia e il mio contesto palermitano: certamente la lettura sarà il mio hobby preferito. Non so ancora cosa farò: è talmente strana l’idea di non venire in ufficio che devo ancora abituarmi all’idea». 
 
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