Gianmarco Tognazzi: «Papà applaudì e io trovai la mia strada»

Gianmarco Tognazzi: «Papà applaudì e io trovai la mia strada»
di Gloria Satta
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Domenica 8 Ottobre 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 11 Ottobre, 21:15
Dice di avere un piano B: il vino. Intanto il piano A, lo spettacolo, non gli lascia tregua. Cinema, teatro, tv, recital di poesia affollano l’agenda di Gianmarco Tognazzi, “Gimbo” per gli amici, attore, conduttore e performer, 50 anni il prossimo 11 ottobre, due figli, tifoso del Milan, una carriera ormai ultratrentennale. Gianmarco, il “figlio piccolo” del grande Ugo. Quello versatile a 360 gradi. Quello sanguigno, temerario, sincero fino all’autolesionismo. Quello incazzoso. Una constatazione: «Ho scelto di lavorare in un settore difficile». Un rammarico: «In Italia non si riesce a fare sistema».

Parlare con “Gimbo” significa fare lo slalom tra ricordi, entusiasmi, malinconie, ragionamenti, indignazioni. E capire che è un uomo risolto, che è felicemente riuscito a venire a patti con la figura paterna leggendaria e ingombrante: altrimenti non avrebbe chiamato “Conte Mascetti”, come il personaggio interpretato da Ugo in Amici miei, uno dei vini prodotti dalla Tognazza, l’azienda vinicola che ha fondato a Velletri dove abita da anni.

Qualche tempo fa, negli alti e bassi del suo mestiere di attore, Gianmarco aveva pensato di mollare lo spettacolo o quasi per concentrarsi sulla Tognazza. Ma la vita gira, il successo pure. Contrordine. Oggi è sul set del nuovo film di Gabriele Muccino, A casa tutti bene, in attesa che esca Non c’è campo diretto da Moccia. Presenta una trasmissione di cucina, Choppped, su Food Network. Prepara Vetri rotti di Arthur Miller per il teatro. Ha tanti altri progetti. E il vino va a gonfie vele: «Abbiamo quadruplicato la produzione», esulta, «siamo arrivati a 120mila bottiglie all’anno con sei etichette diverse».

Il vino le dà più soddisfazione dello spettacolo?
«In questo momento se la giocano al 50 per cento. Mi va alla grande in entrambi i settori. Come produttore vinicolo ho iniziato un percorso alternativo a Velletri e ho preso nuove vigne in Toscana. Come attore, sono grato a Muccino che mi ha voluto in un cast formato da 15 nomi magnifici».

Che ruolo interpreta?
«Il cugin prodigo che piomba dopo una lunga assenza ad una festa di famiglia in cui esplodono i conflitti. Sono un tipo fuori dagli schemi, volevo fare il musicista e cerco di farmi accettare. Ma risulto fuori luogo e fuori misura. Un ruolo perfetto in questo momento della mia vita».

I 50 anni la portano a fare più progetti o bilanci?
«Il fatidico compleanno che mi aspetta è il classico giro di boa. Ma non rappresenta un trauma, non ci penso e non pianifico. Semmai mi guardo indietro per scoprire che sono ancora ingenuo, forse immaturo. Non festeggio, non azzardo consuntivi. Il tempo che passa lo sento in funzione dei figli».

Rispetto a Ugo, che padre pensa di essere?
«Più apprensivo di lui ma pronto come lui a stabilire una grande complicità con i ragazzi, Andrea Viola di 11 anni e Tommaso di 5. Mi riconosco in una frase che papà mi disse quando ero piccolo».

Quale?
«Mi confessò: “Io, che non so crescere, sono destinato a fare figli adulti”. Ecco, da bambino ho vissuto papà come un coetaneo. Oggi mi sento letteralmente dipendente dai figli: mi hanno regalato quella stabilità che ho cercato spasmodicamente per anni».

Non è un mistero che la sua giovinezza sia stata scandita dai contrasti con Ugo. Per quali ragioni?
«Sono stato un bambino invadente e rompicoglioni. E fino a 20 anni ho avuto le idee confuse. Papà si disperava perché non capiva cosa volessi fare: attore, presentatore, aiuto-regista, chissà. Nel 1989 presento il Festival di Sanremo e ottengo il successo nazional-popolare. Tutti mi vogliono, le ragazzine mi aspettano sotto casa. Ma io umilmente mi rimetto a studiare recitazione. Ed è allora che il rapporto con Ugo si sblocca».

Ricorda un episodio preciso?
«Papà venne a vedermi in teatro alla prima di Crack, un testo sulla boxe. Alla fine, il viso rosso e rigato di lacrime, si alzò in piedi e urlò “Bravo!”. È stato il lasciapassare definitivo per il mio lavoro. Mi dispiace che Ugo se ne sia andato dopo pochi mesi e non abbia potuto vedere i miei progressi».

La sua amicizia giovanile con Alessandro Gassmann, figlio di Vittorio, ha replicato il sodalizio dei vostri padri.
«Alessandro e io siamo cresciuti insieme, consapevoli di avere gli occhi puntati su di noi. Avevamo personalità opposte e abbiamo litigato fin dal primo giorno, proprio come Ugo e Vittorio. Ma abbiamo condiviso dei momenti bellissimi. Poi ci siamo separati perché professionalmente non esistevamo all’infuori della nostra coppia. È stato bello ritrovarsi nel cinepanettone Natale a Beverly Hills».

E con le donne? Qual è il suo bilancio?
«All’inizio il mio rapporto con l’altro sesso è stato sconnesso e variegato. All’apice della crisi, dopo un periodo pazzo di cambiamenti e storie tormentate, Franzine, la fidanzata olandese con cui sono stato quattro anni, oggi la mia migliore amica, mi ha traghettato verso la stabilità. Ma dopo di lei, ho attraversato un altro periodo ingestibile. Finché non ho incontrato mia moglie Valeria, l’amore giusto della vita. Fa la mamma e in più si occupa con me della Tognazza e dell’Associazione Ugo Tognazzi».

Suo padre ha avuto quattro figli da tre donne diverse. E’ stato difficile crescere in una famiglia allargata?
«Papà coltivava l’utopia che si potesse vivere tutti insieme pacificamente. È stata mia madre Franca a fare da trait-d’-union tra noi fratelli. Ci vogliamo molto bene. Devo tutto a Ricky, che mi ha dato la prima opportunità nel cinema chiamandomi a fare Ultrà. Adoro mia sorella Maria Sole. E con Thomas, il fratello norvegese, ho fatto tante trasferte al seguito del Milan e un bel po’ di vacanze. Papà è stato un precursore in tutto: ha fatto lo chef quando la cucina non era di moda ed è stato tra i primi a creare una famiglia allargata».

E cosa direbbe del cinema italiano di oggi?
«Soffrirebbe nel vedere che, malgrado ci siano i talenti, non esiste più un’industria. Ai tempi d’oro i giganti del cinema stavano sempre insieme. A casa nostra si accampavano Monicelli, Benvenuti, De Bernardi, Ferreri. Non so quante volte ho dormito con Villaggio. I film-capolavoro, come La grande bouffe, nascevano dalle loro cene. Nell’ultima parte della vita, di fronte al cambiamento che si preannunciava, Ugo è caduto in depressione e s’è andato in Francia».

Che progetti ha per i suoi secondi 50 anni?
«Voglio far crescere la Tognazza: il vino è una mia passione ma anche l’alternativa allo spettacolo. E desidero legare sempre di più le mie attività al ricordo di Ugo. La sua integrità, la sua trasparenza, il lifestyle della nostra famiglia mi hanno formato e mi rappresentano. Sono felice di tramandare tutto questo agli altri».
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