Gabriele Muccino: «Il mio ritorno alla giovinezza è troppo pop per il Leone»

Gabriele Muccino: «Il mio ritorno alla giovinezza è troppo pop per il Leone»
di Gloria Satta
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Venerdì 2 Settembre 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 6 Settembre, 21:03
Per mostrare a tutto il pubblico "L’estate addosso" (al Lido in gara a Cinema nel Giardino, nelle sale il prossimo 15 settembre) è stato necessario aggiungere proiezioni supplementari. Gabriele Muccino, che a 49 anni è tornato a raccontare la giovinezza perduta, come agli inizi della carriera, assapora l’emozione degli applausi veneziani. Tanti, convinti, commossi. Sembra ieri (ma era il 1999) quando la sua opera seconda Come te nessuno mai, ritratto “emotivo” di un gruppo di liceali romani, sbarcava al Lido rivelando il talento del regista che, coniugando le emozioni forti a una sorprendente capacità di girare, sarebbe arrivato molto lontano, a lavorare a Hollywood con le massime star del mondo.

Oggi L’estate addosso racconta, con la colonna sonora di Jovanotti, la vacanza di due liceali freschi di maturità a San Francisco dove incontreranno una coppia gay. È un viaggio “di formazione”. E in qualche modo rappresenta il ritorno alle origini del regista: niente major, budget contenuto, attori poco conosciuti (gli italiani Brando Pacitto, Matilda Lutz, gli americani Joseph Haro e Taylor Frey) «e soprattutto», spiega Muccino, «la libertà di raccontare alla mia maniera».

È dispiaciuto di non essere in concorso?
«Sono conunque felice di ritrovarmi alla Mostra. Il mio film è troppo pop per aspirare al Leone d’oro. Come del resto i miei successi più grandi, L’ultimo bacio e Baciami ancora che non vennero presi in concorso a Venezia ma trionfarono poi ad altri festival, rispettivamente al Sundance e a Shanghai. Ma qualcuno ricorda tutti i vincitori della Mostra? Il successo di un film non passa nacessariamente dai premi. L’importante è che L’estate addosso venga visto».

Ed è nato dall’esigenza di sottrarsi alla morsa di Hollywood, dove ha girato gli ultimi film?
«A volte quella morsa è tutt’altro che respingente: il sistema americano, con i suoi difetti, ha molti lati positivi. Volevo piuttosto raccontare la stagione della vita in cui tutto appare leggero, possibile e si scopre il mondo. Il film ha risvegliato in me emozioni dimenticate».

Quali?
«Calandomi negli occhi, nei sentimenti, nella pelle dei ragazzi protagonisti ho capito che il mio cuore non è invecchiato. Alla soglia dei 50, sono ancora giovane. Il viaggio nella mia memoria ha funzionato come una sorta di auto-rassicurazione».

Ma è vero che i giovani oggi sono più disincantati, addirittura più cinici?
«Già dai tempi di Plinio, i giovani venivano considerati la rovina della società, peggiori delle generazioni precedenti. Quelli italiani oggi sono imbevuti di pessimismo verso il futuro, non riescono proprio a vederlo. Ma è sbagliato fare paragoni. L’approccio alla vita e le grandi pulsioni del cuore sono immutati».

Perché ha ambientato la storia a San Francisco?
«Volevo mettere a confronto due culture diverse, quella italiana e quella americana. La lontananza geografica ti sottrae al giudizio degli altri e ti permette di essere quello che il tuo cuore vuole che tu sia. In più, San Francisco ha segnato la mia vita».

Come mai?
«È il primo posto che ho visitato al di fuori dell’Europa, a 21 anni. Ed è ancora là ho ambientato il mio primo film americano, La ricerca della felicità. È una città molto liberale, che poco somiglia all’America profonda».

Secondo lei Donald Trump può vincere le elezioni?
«Mi auguro di no. Non è un pagliaccio, ma un pericolo per il mondo. Il suo razzismo e il suo narcisismo ricordano purtroppo i tempi bui hitleriani».

È tornato a vivere in Italia?
«Continuo a dividermi tra Roma e Los Angeles dove è più facile lavorare ma, devo ammettere, i rapporti umani non sono il massimo. Per questo vivo appartato, con la mia famiglia e frequento pochissimi estranei».

Con quali criteri ha scelto gli attori del suo film?
«Attraverso i provini. Ho visto centinaia di ragazzi e ho preso i più adatti ai rispettivi ruoli. Non sapevo nemmeno che Brando Pacitto, bravissimo a rappresentare la fragilità e l’apertura al futuro del suo personaggio, fosse già popolare come protagonista della fiction Braccialetti rossi».

Pensa di aver chiuso con i grandi film interpretati dalle star?
«Sono aperto a tutte le possibilità. E ho tanti progetti nella testa, senza pensare ai nuovi film da fare non potrei vivere».

Le brucia ancora l’insuccesso di “Fathers and daughters”?
«Mi ha reso triste, come tutti i film che il pubblico non ha amato quanto li ho amati io».

Che opinione ha del cinema italiano recente?
«Devo confessare che lo conosco poco. In America non arrivano molti film».

Perché aveva abbandonato Twitter?
«Ero uscito ma poi sono rientrato. I social fanno parte della nostra vita, sono utili a capire dove va il mondo. Isolarsi porta ad invecchiare».

Quanti anni si sente, Muccino?
«È strano ma mi pare di averne 37. E l’età che avevo prima di sbarcare in America, e forse non è un caso...».
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