Le donne coraggio nella guerra di spie

Le donne coraggio nella guerra di spie
di Carlo Nordio
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Sabato 25 Marzo 2017, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 18:08
Anche quest’anno il dibattito sulle donne ha riproposto le consuete ritualità: da un lato le litanie sulle vittime di violenze, stalking e discriminazioni. Dall’altro i panegirici sulle donne di successo: manager, ricercatrici, ministre. Forse la vera parità dei sessi sarà raggiunta quando non sarà più necessario parlarne. 
FORMULE
E quando le tradizionali formule che assimilano vecchi, donne e bambini, saranno aggiornate. Se può essere di aiuto, vorremmo ricordare che in guerra le donne hanno spesso mostrato un coraggio pari e anche superiore a quello maschile. Non solo nei ruoli cosiddetti subalterni e assistenziali, ma proprio sul campo di battaglia. 
Durante la seconda guerra mondiale, nell’Europa occupata dai nazisti, molte hanno militato nella Resistenza, rischiando e spesso perdendo la vita. 
VALOROSE
Alcune, pluridecorate, sono ancora vive, anche in Italia. Queste valorose tuttavia combattevano in patria, per cacciarne l’invasore, o comunque vendicarne i soprusi. Altre, invece, avrebbero potuto starsene in Gran Bretagna, in pace e libertà; ma preferirono operare dietro le linee naziste, sole, in un ambiente ostile. Erano le ragazze dello Special Operation Executive. Tredici non ritornarono più.
FANTASIA
Il Soe era un organizzazione nuova e segreta, frutto della fantasia di Churchill, che dopo la sconfitta della Francia, nel 1940, voleva «mettere a ferro e a fuoco l’Europa». Reclutò i personaggi più diversi: dagli spregiudicati avventurieri fino ai pacifici maestri elementari. E anche molte ragazze, dai 20 anni in su. Tutti avevano in comune la padronanza perfetta della lingua del teatro operativo, e uno straordinario coraggio. Il loro compito era sabotare le strutture militari nemiche, raccogliere informazioni, coordinare le bande partigiane e soprattutto tenere i contatti con Londra. 
ADDESTRAMENTO
Seguivano un addestramento rigoroso, e persino spietato: spesso di notte venivano svegliati da energumeni vestiti da SS che simulavano, in modo molto realistico, interrogatori lungi e snervanti. Alla fine, i prescelti venivano mandati in Europa, per lo più in Francia. Talvolta si lanciavano di notte con il paracadute. Più spesso venivano portati da piccoli aeroplani, i mitici Lysander, sui prati controllati dal “comitato di accoglienza”. Tra le altre cose, tenevano la pillola L ( letale): una capsula di cianuro per evitare gli interrogatori della Gestapo. L’Imperial War Museum di Londra ne ha una piccola collezione. Nessuna donna la usò mai. E nessuna, neanche sotto la tortura, parlò.
LIBRI
Di queste tredici ragazze, due sono diventate famose, perché ispirarono libri e film. Violette Szabo era di una bellezza straordinaria; vedova di un militare, madre di una bambina, eseguì con successo una prima rischiosissima missione. Volle continuare, e fu paracadutata dopo il D Day nei pressi di Limoges. Fu intercettata dalle SS della famigerata divisone Das Reich, che nelle stesse ore stava massacrando gli abitanti di Oradour.
FUGA
Si difese fino all’ultimo, favorì la fuga del compagno, esaurì tre caricatori di mitra e alla fine si arrese. Dopo la cattura stupì gli aguzzini per la sua fierezza; trasferita nel campo di concentramento di Ravensbruck, consolò e curò le altre due detenute del Soe, Lilian Rolfe e Denise Bloch. Tutte e tre furono fucilate nel Gennaio del 45. 
Noor Inayat Khan era una principessa indiana, pacifista di religione Sufi. Scriveva racconti per bambini, era mite e gentile. Atterrò in Francia nel giugno del 43, mentre la Gestapo stava sgominando quasi tutti i “resaux” della Resistenza. Per tre mesi fu l’unico contatto tra Parigi e Londra. 
TESTA
Fu individuata e braccata dal Servizio segreto tedesco, che pose sulla sua testa una taglia colossale. Londra le intimò di rientrare, ma si rifiutò. Presa, tentò di evadere la sera stessa della cattura. Ricondotta in cella, nelle soffitte del nr 84 Avenue Foch ( il palazzo è ancora lì, identico) riuscì a rompere la grata e fuggì sui tetti di Parigi. Le SS la riacciuffarono, e la imprigionarono a Pforzeim, isolata e incatenata per tutto il tempo. Alla fine la spedirono a Dachau, dove fu giustiziata. Le sue ultime parole furono: «Liberté».
SORTE
Le altre undici ebbero una sorte simile. Tre furono uccise con un’iniezione a Natzweiler, una di loro Andrée Borell, era probabilmente ancora viva quando la ficcarono nel forno crematorio. Ma per fortuna, tra le cinquanta valorose spedite in Francia, la più parte sopravvisse.
Odette Sansom passò molti mesi al buio in una cella, aspettando un’esecuzione che non arrivava . Aveva tre figli. Non parlò mai. Tornata in Patria, disse di aver fatto solo il suo dovere.
In loro onore, fu eretto dopo la guerra un (brutto) monumento a Valençay. Ogni anno vi si recano, in riconoscente memoria, autorità e veterani. Fino a qualche tempo fa la capofila era Vera Atkins, l’ufficiale che le aveva istruite, e che dopo la guerra identificò e fece processare i loro aguzzini. Vera è morta a novant’anni, sopravvissuta al dolore della guerra e alle cento sigarette giornaliere. Voilà, une femme!
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