Dacia Maraini: «Le battaglie della mia vita»

Dacia Maraini: «Le battaglie della mia vita»
di Paolo Di Paolo
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Venerdì 11 Novembre 2016, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 14 Novembre, 20:16
È sempre in viaggio, Dacia Maraini. La più famosa scrittrice italiana compie ottant’anni domenica, non ama le celebrazioni e le ricorrenze, né le piace parlare al passato: vive il presente con curiosità e passione inesausta. Un libro appena uscito per Rizzoli e firmato da Concita De Gregorio - Non chiedermi quando. Romanzo per Dacia - ripercorre le tappe di un’esistenza fuori dal comune. Una famiglia di viaggiatori - nonna esploratrice e scrittrice, padre antropologo, madre artista -, una passione divorante per i libri, un percorso tra le parole cominciato giovanissima e costellato di successi, dal Premio Formentor per L’età del malessere nel 1963 al Campiello per La lunga vita di Marianna Ucrìa nel 1990, e ancora lo Strega nel ‘99 e il Manzoni alla carriera tra qualche giorno. «Ma per una donna la fatica è sempre doppia» commenta sorridendo. E forse allude anche alla fresca e sonora sconfitta di Hillary Clinton.
Ha pesato anche il fatto di essere una donna, come molti fanno notare? O c’è altro?
«Si può certo riconoscere una mancanza di carisma e di forza della proposta politica. Ma è interessante notare come una delle accuse che le sono state rivolte - quella di essere “fredda” - raramente viene mossa a un politico uomo. La freddezza, in una donna, viene letta spesso come mancanza di femminilità, di passione. Quanto al tema del rapporto della Clinton con l’establishment o alla sua ricchezza, anche in questo caso mi pare affiori un pregiudizio profondo. Trump non è forse ricchissimo?».
Donna e potere è un binomio che ancora fatica a essere digerito?
«Basta fermarsi sulla parola carriera. Se la si usa relativamente al percorso di un uomo, assume sempre un segno positivo. La carriera di una donna, in qualunque ambito, è invece interpretata quasi come una perversione, come un tratto diabolico. La donna “in carriera” è quella che trascura la famiglia, che sgomita, che schiaccia, che domina. Nel 2016 siamo ancora fermi su una separazione netta, per ciò che riguarda le donne, tra vita privata e vita professionale, come due aspetti dell’esistenza in contraddizione fra loro».
Lei è stata protagonista di una lunga stagione di battaglie femministe. Dopo mezzo secolo si può fare un bilancio?
«La grande rivoluzione senza sangue del femminismo ha prodotto - è ormai indiscutibile - un grande avanzamento nei costumi. Nessuno può più negarlo. Le conquiste sul piano civile, giuridico sono sotto gli occhi di tutti. Piuttosto, non bisogna darle per scontate. Mi pare anzi che negli ultimi anni qualche segno di regressione via sia, atteggiamenti di chiusura che fanno tornare indietro di decenni l’orologio della Storia».
La battaglia relativa al lessico - sindaca al posto di sindaco, e via così - ha secondo lei rilevanza?
«La lingua è sempre il sintomo di qualcosa. Ed è un fatto che la grammatica, per via di secoli di patriarcato, esprima una visione androcentrica. Si declina tutto al maschile: se si dice “uomini” si intende anche donne. Sforzarsi di correggere, per quanto possibile, questo granitico maschilismo della lingua non è cosa di poco conto. Pensi alla parola maestro: al maschile è sinonimo di grandezza, di prestigio e autorevolezza. Al femminile si riferisce solo a un mestiere, ovviamente importantissimo, ma solo a quello».
In cima alle classifiche dei bestseller le autrici sono numerose, ma nei canoni e nelle storie della letteratura vengono sempre ridimensionate...
«Per molti, ancora oggi, la scrittura delle donne è sinonimo di crepuscolarismo, un prodotto sentimentale e vagamente inferiore. Non è difficile capire perché Elsa Morante, che non aveva partecipato al movimento delle donne, rifiutasse di essere chiamata scrittrice e preferiva definirsi scrittore al maschile, poeta. Per fortuna il numero di donne che scrivono, pubblicano e hanno successo è notevole, anche perché in Italia leggono più le donne che gli uomini. Se si passa però al piano istituzionale, della critica accademica, le autrici quasi scompaiono. Non parlo solo di quelle più vicine a noi, mi riferisco anche all’incomprensibile silenzio sulla scrittura delle mistiche, o all’atteggiamento liquidatorio verso l’unico premio Nobel italiano donna, Grazia Deledda».
Il novantesimo dall’assegnazione del Nobel può essere un’occasione utile per riscoprirla.
«Ho proposto infatti di reintegrarla come si deve nelle antologie scolastiche. La sua scrittura, che passa per provinciale, ha invece qualcosa di universale, che supera l’estetismo dannunziano».
Che cosa la preoccupa di più, se guarda al futuro?
«La perdita del senso comunitario. Una frantumazione, una mancanza che ha un riflesso anche nel mondo letterario. I letterati, gli scrittori non si sentono più parte di una comunità, lavorano ciascuno per sé, senza nessuna alleanza, senza progetti comuni. Questo riduce complessivamente la forza del lavoro letterario, rende meno incisivo lo sforzo di quella che dovrebbe essere una “comunità pensante” e invece resta solo una somma di individui sempre più soli. Bisogna ripartire da progetti comuni, da un orizzonte più vasto di quello della sopravvivenza personale».
 
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