Carlo Verdone festeggia 40 anni di carriera: «Il mio vero mestiere? Pedinatore di italiani»

Carlo Verdone festeggia 40 anni di carriera: «Il mio vero mestiere? Pedinatore di italiani»
di Malcom Pagani
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Domenica 28 Maggio 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 2 Giugno, 12:11
Anatomia di un mestiere: «Sono stato un pedinatore di italiani, un osservatore maniacale del dettaglio, un analista del peccato veniale. Assorbivo debolezze, tic e fragilità e le riproponevo in chiave di commedia. Il fumatore con il dito giallo di nicotina, il macho che si toccava il “pacco” per sentirsi un vero uomo o il playboy che partiva per Cracovia con il sedile ribaltabile e il pettinino nella tasca della giacca, non esistevano soltanto nei film. Erano intorno a me. Li avevo visti con la stessa curiosità che fin da bambino, dal bagno di servizio della casa in Via Lungotevere dei Vallati, mi aveva spinto a guardare il sarto cucire per ore orli e pantaloni o la ragazza dai lunghi capelli castani con cui un giorno sognavo di fidanzarmi, indirizzare parole a chissà chi riempiendo grandi fogli bianchi». Per scrivere la storia di Carlo Verdone, 66 anni, 25 film, un doppia dozzina di David, Nastri e Globi d’oro a occupare le scansie, servono più numeri che parole: «Ho iniziato a fare l’attore esattamente 40 anni fa, al Teatro Alberichino, nel momento in cui la cassiera ha strappato il primo biglietto di Tali e quali». 

Sotto il cartellone che annuncia Rosmunda con Paolo Poli, lei sosta di fronte all’ingresso. 
«Dopo il diploma al Centro Sperimentale, un paio di documentari, un esperienza da assistente alla regia in un film un po’ scollacciato di Franco Rossetti, un’infinità di porte in faccia, altrettanti “le faremo sapere” e un notevole freddo preso nelle cantine dell’underground romano, mi chiedevo cosa dovessi fare della mia vita. “Meno male che ho preso la laurea” mi dicevo. Prospettive nel mondo dello spettacolo ne avevo poche. Andai a cena con il direttore dell’Alberichino, Obino, e nacque quell’occasione». 

Cosa cambiò dopo quella cena?
«Obino si disse certo che nascondessi un talento comico e mi propose di scrivere qualche testo e di affittare il teatro per un paio di settimane. Mi misi d’accordo con Daniele Formica che però a un passo dal debutto mi disse “Non me la sento”. Mi ero impegnato a pagare trecentomila lire, una cifra enorme. Ero disperato e provai a fuggire telefonando a Obino per rinunciare. Quello fece orecchie da mercante e più secca ancora fu mia madre che quella conversazione l’aveva ascoltata dal primo all’ultimo minuto: “Se non vai sul palco ti prendo a calci in culo”». 

Mantenne la promessa? 
«Me lo diede davvero e fece bene. Al quinto giorno si presentò un solo spettatore. Recitammo comunque e alla fine, di fronte ai lamenti crepuscolari dei miei compagni d’avventura: “È stata un’umiliazione, non ci sarà mai una seconda occasione, siamo finiti ancora prima di aver iniziato”, dissi seriamente, non so quanto credendoci, che eravamo stati degli eroi e che il senso del teatro era proprio in quella recita per una singola persona. Che ringraziò andandosene e il giorno dopo, su Paese Sera, occupò una pagine per scrivere: “È nato il nuovo Fregoli, correte a vederlo”. Era Franco Cordelli. Quella sera mi ha cambiato la vita». 

Con chi sente di aver debiti? 
«Con quelli che come lo scenografo e regista Franco Bottari o Filippo Paolone, il titolare della Giada Film, quando ho chiesto aiuto non si sono voltati dall’altra parte. Sono stati in pochi. Dopo il Centro Sperimentale andavo a offrirmi in giro gratis come assistente, ma le produzioni non volevano pagare neanche l’assicurazione». 

Paolone le offrì un lavoro? 
«Mi offrì di realizzare due piccoli film, uno sui castelli nel paesaggio laziale e un altro sull’Accademia musicale chigiana. Intervistai Giuranna, Navarra, Accardo, Gazzelloni e Franco Ferrara, mi sentii utile e onorato». 

Lei non aveva ancora esordito.
«Mio padre Mario, importante studioso di cinema, era stato selezionatore al Festival di Venezia e scriveva saggi su Bianco & Nero. Non era raro che alla porta si presentassero Pasolini o Fellini. Federico era insonne, proprio come me. Una volta lo incontrai di notte, in Via del Babuino, in attesa di salire su una macchina della Polizia. “Mi faccio un giretto, sai com’è, non dormo niente”. 

Su una macchina della Polizia? 
«Andava a curiosare nell’umanità che poi descriveva nei suoi film. Per un certo periodo, dopo aver chiesto permesso: “Ti posso rompere i coglioni alle 7 del mattino?” mi telefonava per raccontarmi quelle avventure notturne. Le scene che vedeva, l’allegria forzata, le solitudini». 

Le ha raccontate anche lei. 
«È la mia vena malincomica e non ci posso fare niente. C’è in tanti film: Un sacco bello, Bianco Rosso e Verdone, Compagni di Scuola». 
 
 


Uno dei suoi film più riusciti. 
«L’organizzatore lesse il copione e mi disse “Non si ride, non ci ho capito niente, non è una commedia”. Mario Cecchi Gori mi tirò letteralmente il copione addosso: “È verboso, logorroico, ci sono 19 personaggi e non si ride. Prenderemo schiaffi da tutti”. Andai da Benvenuti e De Bernardi, gli sceneggiatori, per annunciargli che forse il film non si sarebbe fatto. Fu drammatico». 

Cecchi Gori cambiò idea? 
«Mi aspettò al varco per criticarmi brutalmente e invece il film gli piacque. Avanzò con il sigaro in bocca a passi lenti: “Mi freghi sempre, li giri meglio di come li scrivi».
 
Era vero? 
«Non era vero, ma capivo il suo punto di vista. Fino a quel momento ero ancora quello che faceva i personaggi, i Furio o gli Oscar Pettinari e lo spiazzamento di Compagni di scuola gli sembrava eccessivo. Il primo politico che dice parole di sinistra e intanto si rinserra nel bagno a tirare cocaina, comunque, l’ho immaginato io in quel film. Ed era il 1988». 

Otto anni prima Sergio Leone aveva prodotto il suo esordio.
«Il ponte tra noi fu mio fratello Luca. Leone mi cercò e mi diede un appuntamento a modo suo: “Puoi passà domani che te devo parlà?”. Non me lo feci dire due volte e il giorno dopo arrivai in perfetto orario sulla porta della sua grande villa all’Eur. C’era un campanello mezzo rotto, ci misi il dito, presi la scossa tirando giù sei moccoli e poi entrai. Dentro regnava una confusione indescrivibile. Animali, copioni accatastati, voci miste. Poi si sentì solo il rombo di Sergio. Un tuono: “Te devi tenè libbero, forse ho una proposta che te può piacè”. Mi esaltai e gli passai con aria furtiva due o tre soggettini che mi ero portato dietro. “Torna domani” disse, mi offrì un bicchiere d’acqua e mi congedò». 

Il giorno dopo? 
«Era incazzato nero, sbraitava: “Ma che monnezza m’hai portato? Non dovemo piagne qui, dovemo ride”. Un sacco bello iniziò in quel momento. Dentro avevo la nitroglicerina, non mi pareva vero. Ennio Guarnieri, il più veloce operatore del cinema italiano, era sconvolto: “Carlo io corro, ma tu te devi calmà, nun te riesco a stà dietro, se continui così il film lo finiamo in tre settimane». 

Ne impiegaste cinque. 
«Non sempre ero così veloce e avevo bisogno di fissare con la necessaria attenzione quell’istante magico: una Roma che conoscevo a memoria, quella dei vicoli di Trastevere, che stava sparendo per sempre». 

Fu un set facile da guidare?
«Quando Leone mi ordinò di fare due giri del palazzo a Ferragosto per rendere più credibile con il sudore la mia difficoltà finsi di dargli retta. Poi aspettai 15 minuti in fondo alle scale, bagnandomi la fronte con una bottiglia d’acqua prima di risalire. Lui si era messo in finestra e mi tese un tranello: “Fa caldo fuori, eh Carlè?”, “Una cosa tremenda” risposi e prima di finire la frase una botta di calore arrivò davvero. Era la sberla che presi a mano piena da Leone. Una mano enorme». 

Ha avuto maestri severi. 
«Mi è servito a non montarmi la testa. A casa mia non mi hanno mai detto: “Bravo, hai fatto un bel film”, ma hanno sempre tenuto l’atteggiamento di chi pensava: “l’hai scampata, adesso pensa rapidamente a migliorare con il prossimo”».
 
La sincerità è un valore? 
«Nel mio ambiente è quasi impossibile essere sinceri. Se provi a dire con franchezza quello che pensi a un collega, se solo ti azzardi a non gridare al capolavoro, quello si offende e non ti saluta più. Devi sempre dire “È straordinario”, non c’è nessuna amicizia, solo desiderio d’adulazione. Un atteggiamento che mi fa schifo». 

Laicità per laicità, suo padre la esaminò all’Università. 
«Storia del cinema. La sera prima della prova entrai nella sua stanza, interruppi il ticchettare della sua Lettera 22 e gli dissi: “Papà, mi raccomando, ho studiato solo Fellini o Bergman, chiedimi di loro”. Lui annuì e ci salutammo. Chiusi la porta e andai a dormire tranquillo».
 
Il giorno dopo? 
«L’aula sembrava il Colosseo e io la vittima da sbranare. L’emiciclo pareva la curva sud: “È parente, è parente, vergogna, vergogna”. Mi siedo e papà, freddissimo, mi gela con una domanda su Pabst e sull’espressionismo tedesco. Cerco di pronunciare il nome di Fellini e Rossellini, improvviso un labiale, lo guardo malissimo. Lui imperturbabile, mi fa alzare: “Si prepari meglio la prossima volta”. A casa litigammo, ma papà era fatto così. Serio fino ai limiti della spietatezza e fanciullesco quando ci accompagnava a giocare a calcio a Villa Borghese o prendeva un aereo al volo per Praga e mi ci infilava dentro. Con i miei figli, Paolo e Giulia, oggi faccio così anch’io».
 
Che rapporto ha con i suoi figli? 
«L’ho recuperato grazie a un film che non andò secondo le aspettative, C’era un cinese in coma. “O il pubblico si è stancato di me- mi dissi- oppure non era il film che voleva vedere”. Come si può vincere una battaglia? Non partecipando alla battaglia. Così mi fermai per due anni e ritrovai il mio ruolo paterno viaggiando con loro, un dodicenne e una quattordicenne, per tutta l’estate tra l’America e il Medioriente. Mesi meravigliosi,indimenticabili».
 
La sua prima cinepresa ce l’ha ancora? 
«È del 1970 ed è appesa a una parete della mia casa di campagna. Dentro c’era una bobina, ancora mi ricordo il titolo: “la vendetta dei visi pallidi”. 

La vendetta è un sentimento lecito? 
«Avrei avuto occasione di sperimentarla, ma a molti di quelli che mi hanno scartato con sufficienza agli inizi, negli anni successivi ho trovato persino lavoro. Non ho mai sentito il bisogno della vendetta perché non provo e non ho mai provato alcun rancore». 

Cosa prova allora? 
«Nostalgia per questa città così sacra e così miserabile, per le contrabbandiere di Vicolo del cinque che ti passavano i pacchetti mosci di Marlboro sussurrandoti complici: “So’ appena arrivate dall’America” o per la tessera del Filmstudio all’epoca in cui vedevo anche tre film al giorno. Roma era un sogno, aprivi una serranda e trovavi la cultura. Un teatro off, un locale blues, un cineclub. C’era voglia di stare insieme, il contrario di quel che accade oggi. Tutti vogliono rimanere da soli, vedere le serie in tv dal divano e orientare la propria esistenza con il mouse. Sa cosa che le dico?». 

Cosa? 
«Forse si stava meglio quando avevamo di meno e non c’era bisogno di vivere nel bisogno».

Certe pellicole proiettate al Filmstudio andavano oltre lo sperimentalismo
«Alcune, sono d’accordo, erano una rottura di palle. Anna di Alberto Grifi, con tre ore e quaranta di ripresa ossessiva di una ragazza con seri problemi, non lo era? Lo era. Però era anche cinema intelligente che inseguiva un linguaggio vicino alla verità assoluta». 

Ma la verità assoluta non esiste. 
«Ma esiste la libertà dell’esperimento e non la puoi recintare in nome di un gusto prestabilito. Non è che Yoko Ono o John Lennon, con la loro super8 montata su una mongolfiera e venti minuti di schermo bianco e muto facessero poi qualcosa di così diverso da Grifi. E noi eravamo ragazzi capaci di parlare per un’ora di un piano sequenza di Miklós Jancsó». 

Di cosa è orgoglioso? 
«Di aver fatto sempre con la mia testa e di non aver delegato agli altri le mie scelte. Quando il mio primo agente mi suggeriva una strada, prendevo regolarmente quella opposta».
 
Qualcuno l’ha paragonata a Sordi. 
«Paragone improprio. Sordi era un gigante che passò accanto alla storia, alla guerra, alla ricostruzione, al boom economico. A quel tempo la letteratura lavorava per scrivere cinema, oggi non mi pare accada lo stesso e anche se accade, la differenza di valore sul tavolo è enorme. Poco prima che si ammalasse, Sordi mi disse una cosa che non ho dimenticato».

Quale? 
«Che gli facevo tenerezza. Eravamo a pranzo: “Sai che c’è Carlo? Per voi sarà complicato far ridere domani”. Gli domandai il perché e lui, disilluso: “Perché nessuno si stupisce più di niente, Non c’è più pudore né senso del ridicolo, non ci si scandalizza più di un cazzo”».

Roma è addolorata e in parte scandalizzata per il forzato addio di Totti.
«Oggi sarò allo stadio. Francesco è stato immenso e se si sente ancora di giocare fa benissimo a continuare. Se invece vorrà fare il dirigente, sorprenderà comunque tutti. Deciderà lui, come sempre». 

Il prossimo sarà il suo film numero 26
«Sarà molto diverso e articolato dagli ultimi e ci sarà accanto a me Ilenia Pastorelli. Spero di dare divertimento e poesia. Devo essere bravo». 

In che cosa si sente bravo? 
«Forse nel coltivare tante passioni diverse tra loro. Se non hai passioni ti lasci andare in una vita inutile. E io non voglio solo esistere, voglio vivere». 
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