Brexit, le università tremano per la fuga dei prof: un esodo che costa a Londra 85 miliardi

Brexit, le università tremano per la fuga dei prof: un esodo che costa a Londra 85 miliardi
di Cristina Marconi
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Martedì 14 Marzo 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 08:08
LONDRA - Ai rettori di quasi tutti i college di Oxford – trentacinque su trentotto – non piace che professori, ricercatori e assistenti di origine europea debbano vedersela con la Brexit e con una tale incertezza sul loro futuro: «Alcuni sono preoccupati, altri stanno già facendo dei piani per andare via», hanno spiegato ieri nell’ennesima, accorata lettera al Times, mettendo in evidenza il «danno enorme» che il Regno Unito riporterebbe se il personale accademico perdesse il diritto di lavorare in un settore universitario che contribuisce all’economia nazionale con cifre nell’ordine dei 73 miliardi di sterline all’anno, ossia quasi 85 miliardi di euro.

E Oxford, rispetto a Cambridge, almeno non ha avuto l’emorragia di iscrizioni che tutte le università britanniche lamentano dal 23 giugno scorso, data del referendum: le domande da parte di studenti europei sarebbero aumentate del 10% e passa, contro il crollo del 14% a Cambridge e un calo generale del 7%. Un danno ingente, se si pensa che secondo i dati di University Uk relativi al 2012-2013, gli studenti europei sono risultati essere il 5,5% del totale e hanno contribuito per 3,7 miliardi di sterline all’economia britannica, con 34mila posti di lavoro.

«UN TESORO»
«Oxford deve essere un tesoro nazionale», ha dichiarato Alistair Buchan, nominato a dicembre scorso stratega oxoniense sulla Brexit e incaricato di «coordinare la risposta dell’università agli sviluppi politici e garantire che sia ben posizionata per individuare le opportunità e adattarsi a questa situazione in rapida evoluzione». Buchan, che ha dichiarato di aver votato “remain”, non si è espresso in termini teneri nei confronti dei politici che hanno portato il paese nella situazione in cui si trova, ma ha comunque il compito di trovarne gli aspetti positivi: solo così può salvare uno dei fiori all’occhiello del sistema britannico, che ha sì ottocento anni di storia alle spalle, ma che deve il suo straordinario prestigio internazionale anche alla quantità di fondi europei che ha ricevuto – 2 miliardi di sterline all’anno per tutto il settore dell’istruzione superiore – e che ora rischia di perdere. Anche se dopo la Brexit il Regno Unito scegliesse un modello ibrido come quello della Svizzera per non perdere del tutto i finanziamenti europei, dovrebbe comunque confrontarsi con scelte prese da altri, che difficilmente ne valorizzerebbero il sistema universitario, che esattamente come quello finanziario, fa gola a molti vicini di casa.

Per ora i fondi europei per la ricerca hanno creato 19mila posti di lavoro in tutto il paese e rappresentano circa il 14% di tutte le entrate legate alla ricerca. Il 15% e passa del personale accademico, tra professori e ricercatori, sono cittadini europei e secondo un sondaggio condotto dalla University and College Union su mille professori e lettori è emerso che tre quarti degli accademici europei ritengono che dopo la Brexit la loro partenza sia più probabile. Il 29% ha dichiarato di conoscere qualcuno che se n’è già andato e il 44% sostiene che c’è gente che ha già perso accesso a dei fondi di ricerca.

CHI NE APPROFITTA
Le università straniere cercano di approfittarne come possono: i francesi hanno fatto circolare l’ipotesi di voler aprire una «Oxford-sur-Seine», ossia una succursale della città universitaria britannica in terra francese e quindi sottoposta alla giurisdizione comunitaria sulla libera circolazione. Ma da Oxford hanno smentito: la sede resta unica, i college non si spostano. E gli euroscettici continuano a dire che il prestigio delle università britanniche non teme rivali. Gli studenti continuerebbero ad arrivare, ma pagherebbero la stessa retta di un cinese o un americano, ossia tra le 15 e le 23mila sterline all’anno contro le circa 9mila attuali. E quindi se un calo drastico delle domande rischia di portare ad una perdita di 690 milioni di sterline all’anno, il calo della sterlina potrebbe incoraggiare alcuni studenti ad affrontare comunque le tasse universitarie, attirando 20mila studenti in più e 187 milioni di sterline in più secondo alcune previsioni ottimistiche, confermate anche in un report dello Higher Education Policy Institute.

L’altro argomento a cui fanno ricorso i brexiters è che da una parte il calo degli studenti europei permetterebbe a un maggior numero di britannici di accedere alle esclusive aule di Oxford e Cambridge, dall’altra porterebbe più studenti dei paesi anglofoni, creando soprattutto nel settore sanitario una forza lavoro madrelingua. Ma la forza dell’università britannica sta anche nei forti legami con le industrie, un quarto delle quali sono europee: secondo uno studio dell’Università di Leida, la Brexit metterebbe seriamente a repentaglio questi rapporti fondamentali. E negli scambi che i suoi stessi studenti possono avere con il resto d’Europa, grazie al programma Erasmus. Il cui futuro, come il resto, è avvolto nella nebbia.
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