Blues Brothers, quaranta anni fa l'esordio: così nacque il mito di una generazione

Blues Brothers, quaranta anni fa l'esordio: così nacque il mito di una generazione
di Leonardo Colombati
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Domenica 1 Aprile 2018, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 5 Aprile, 17:59
Quarant’anni fa, il 22 aprile 1978, John Belushi e Dan Aykroyd entrarono in scena al Saturday Night Live sulla Nbc eseguendo Hey, Bartender con in testa un cappello nero a mo’ di John Lee Hooker e un completo nero come i jazzisti degli anni Quaranta. Così apparivano anche sulla copertina di Briefcase Full of Blues, il loro primo album a nome Blues Brothers, pubblicato quello stesso anno, mentre nelle note interne veniva riportata la biografia di Jake e Elwood Blues – i loro mitici alter ego –, cresciuti nell’orfanatrofio cattolico di Calumet City, Illinois, e diventati fratelli di sangue tagliandosi un dito con una corda della chitarra di Elmore James. Amen.

Io conobbi la leggenda di Jake e Elwood, come molti, qualche anno dopo, grazie al film. Con la memoria riesco a tornare al tredicenne me stesso – né carne né pesce – che, seduto su un divano color arancio, ordina al fratello minore di inserire la videocassetta (pleistocene) di The Blues Brothers nel registratore. Seguirono due ore e un quarto che, nell’accompagnare le peripezie di John Belushi e Dan Aykroyd, alias Jake e Elwood Blues («rimettiamo su la vecchia banda, facciamo qualche serata, facciamo un po’ di grana e – bang! – cinquemila bigliettoni»), cambiarono i punti cardinali sulla bussola della mia giovinezza.

ISOLAMENTO
Trecento anni prima che la Decca incidesse su vinile ottocentomila copie di (I Can’t Get No) Satisfaction, il signor Blaise Pascal scrisse che «tutta l’infelicità degli uomini ha una sola provenienza, ossia di non saper restare tranquilli in una stanza». Nabokov, ritoccando il pensiero di quell’inflessibile giansenista, raccomandava, «non come prigione» ma «solo come indirizzo permanente, la vituperatissima torre d’avorio, purché ovviamente fornita di telefono e ascensore». Io mi permetterei di aggiungere un televisore e una manciata di dvd (archeologia tecnologica, ormai, lo so…); non c’è niente, infatti, che lenisca la mia angoscia come rivedere certi vecchi film. Vecchi non nel senso di Nascita di una nazione o di Via col vento; mi riferisco, piuttosto, a quei film che, visti durante quell’estenuante, dolcissima malattia che è la preadolescenza, hanno contribuito ad affilare le uniche due armi che ci sono rimaste per difenderci dalla «marea di merda» (quella che assediava la torre d’avorio di Flaubert, come lui stesso si peritò di specificare in una lettera a Turgenev): ovvero, l’ironia e il buon gusto.

Tra tutte quelle madeleine sinestetiche, The Blues Brothers occupa un posto speciale. Cosa mi ha insegnato quel film? La mania per i Ray-Ban Wayfarer (acquistati subito, persi, riacquistati, ripersi…) e le basette lunghe, la consapevolezza che il vintage tira più delle novità pretenziose (di fronte a certi amici che esibivano nuove moto fiammanti si potevano opporre vespini scassati e ribattezzarli “Bluesmobile”), una certa diffidenza verso il fisco (l’orfanotrofio con le “pinguine” che hanno tirato su Jake e Elwood rischia la chiusura per il mancato pagamento di tasse); l’amara consapevolezza che Leila Organa non era una principessa ma un’attrice come tante (Carrie Fisher è l’esasperante ex di Jake), le crisi di risa da cui, come per un riflesso pavloviano, vengo colto ogni volta che vedo un servizio su una manifestazione neofascista, perché mi vengono sempre in mente quegli scombiccherati nazisti dell’Illinois…

LEZIONI
Soprattutto ho imparato che si può far ridere alzando solo un sopracciglio (come fa Belushi) o non muovendo un singolo muscolo facciale (come capita spesso ad Aykroyd) e che il soul è davvero musica che illumina. Non so se riesco a rendere a parole l’euforico stupore che mi prese, quella sera sul divano, nel vedere il sermone del reverendo James Brown trasformarsi in una The Old Landmark da crisi epilettica o l’intera Quarantasettesima Strada di Chicago scatenarsi davanti al negozio di strumenti Ray’s Music Exchange mentre Ray Charles si produce in una contagiosa Shake a Tail Feather; e che dire di John Lee Hooker che suona Boom Boom su Maxwell Street come un musicista di strada o della divina Aretha Franklin che canta Think vestita come la cameriera di una tavola calda, o di Cab Calloway che, snocciolando Minnie the Moocher in smoking bianco ci porta ai tempi del Cotton Club? 

Fu una rivelazione. «Tu hai visto la luce?» chiedeva un esaltato James Brown. Oh, sì… l’avevo vista, eccome! Così tanta che non potevo non fare sì con la testa mentre Elwood diceva che «quando le fiammelle del blues, del rhythm and blues e del soul saranno ormai estinte, sarà la luce stessa del mondo ad estinguersi». Ne volevo di più. Più luce! E così comprai la colonna sonora di The Blues Brothers. La migliore colonna sonora dell’intera storia del cinema. C’erano i pezzi di James Brown, di Ray Charles, di Aretha, di Cab Calloway; e c’erano pure quelli che cantano Jake ed Elwood: She Caught the Katy di Taj Mahall, Gimme Some Lovin’ dello Spencer Davis Group, il tema di Rawhide, Everybody Needs Somebody to Love di Solomon Burke, Sweet Home Chicago di sua Diabolica Maestà Robert Johnson e Jailhouse Rock di Elvis, che nel film Jake e Elwood eseguono in divisa carceraria. 

PROTAGONISTI
Ad accompagnare John Belushi e Dan Aykroyd, la Blues Brothers Band. Un gruppo di musicisti che dire eccezionali è poco. Willie Hall era il batterista dei Bar-Kays, Steve Jordan ha suonato con Neil Young e Bruce Springsteen, Donald “Duck” Dunn e Steve Cropper venivano dai mitici Booker T. & the MG’s; Cropper, poi, è l’uomo che ha scritto In the Midnight Hour con Wilson Pickett, Sittin’ on The Dock of the Bay e Respect con Otis Redding e Knock on Wood con Eddie Floyd: basta e avanza per aspirare a vedersi intitolato almeno uno dei due gioghi del Parnaso della soul music. Anche la sezione fiati non era male: Tommy Malone, Lou Marini e Alan Rubin.

Ne volevo di più. Volevo più roba di quei due strampalati fratelli vestiti tutti di nero (scoprii John in Animal House, Dan in Una poltrona per due e la coppia in 1941 – Allarme a Hollywood di Spielberg), e volevo più blues, più soul, più musica. Andai a cercarmi i dischi di tutta quella gente, rovistando nei sacri cataloghi della Stax e della Motown. E comprai il primo album dei Blues Brothers, Briefcase Full of Blues. Ricordo che col mio blood brother Tato – così come tanti altri teenager degli anni Ottanta – avevamo inserito intere battute dei Blues Brothers nel nostro repertorio. Così, quando si trattava di farsi perdonare dalla ragazzina di turno, si ricorreva al proverbiale «ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione» che Jake sciorina per non essere ammazzato dall’ex fidanzata.

Ma soprattutto, ogni volta che prendevamo la vecchia auto scassata del padre di Tato (la nostra Bluesmobile: «motore truccato, sospensioni rinforzate, paraurti antistrappo, gomme antiscoppio e cristalli antiproiettile. E non c’è neanche bisogno dell’antifurto perché ho collegato tutti i contatti con la sirena») e partivamo da Roma per andare al mare, uno di noi due immancabilmente diceva, come Elwood: «Sono centoventisei miglia per Chicago. Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio, e portiamo tutti e due gli occhiali da sole». E l’altro diceva: «Vai», come Jake. Era il nostro abracadabra per la libertà.
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