Berlioz, la febbre dell’oro: il “Benvenuto Cellini” al Teatro dell’Opera con la regia di Gilliam e la direzione di Abbado

Berlioz, la febbre dell’oro: il “Benvenuto Cellini” al Teatro dell’Opera con la regia di Gilliam e la direzione di Abbado
di Claudio Strinati
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Lunedì 21 Marzo 2016, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 19:23
Il Benvenuto Cellini di Hector Berlioz esordì a Parigi nel 1838 e fu un fiasco. Ripreso e rielaborato più volte dette poi qualche soddisfazione al compositore, specie quando fu dato a Weimar auspice Franz Liszt. Berlioz svolgeva anche attività giornalistica di critico musicale, quando il Cellini andò in scena e questo gli attirò ire e antipatie di molti colleghi, ma era un narcisista privo di dubbi sulla sua grandezza, quindi non soffrì neanche tanto.

L’AUTOBIOGRAFIA
Qualche motivo vero c’era, tuttavia, in quell’insuccesso. Il Cellini è un’opera difficile e complessa. Si racconta che Berlioz fosse rimasto molto affascinato dall’Autobiografia di Benvenuto Cellini, testo avvincente e memorabile, opera di un narcisista del Cinquecento di pari potenza rispetto al sommo compositore francese. Si è pensato, quindi, che Berlioz avesse composto il suo Benvenuto Cellini per sottolineare le somiglianze con lo scultore fiorentino, egoista, altero, prodigioso creatore, combattente perpetuo contro tutto e contro tutti fino alla fusione della statua bronzea del Perseo, raccontata come si fosse trattato di un episodio della mitologia antica, battaglia disperata e vinta contro l’impossibile, senza concessioni alla facilità o alla semplificazione.
 
IL SUPERUOMO
Un miracolo oltre la tecnica e il futuro superuomo nietzschiano già cominciava a fare capolino in quelle pagine che avrebbero spinto Berlioz a orientarsi, ai primi dell’Ottocento, verso idee prefiguranti Wagner e il mito nibelungico. Ma per adesso, nel 1838 o poco dopo, siamo in un clima diverso e Berlioz sogna di essere Benvenuto Cellini, giovane e determinato. Del resto Berlioz aveva appena trentun anni e alle spalle alcuni capolavori supremi, soprattutto la Sinfonia fantastica del 1830. E credo che Terry Gilliam, incantatore e narratore di favole di un mondo vero e impossibile come quello dei Fratelli Grimm o del Barone di Munchausen, abbia sentito bene questo sentimento di Berlioz dandogli una veste visiva confacente.

IL LIBRETTO
In realtà, a occhio e croce, a Berlioz della grandezza del Cellini non interessava nulla. Il libretto, tra l’altro, stravolge la verità storica raccontando come la statua del Perseo venisse ordinata al Cellini dal papa, mentre la commissione fu data da Cosimo de’ Medici. Così, però, l’opera è ambientata a Roma e la musica culmina nella celebre scena del Carnevale dove, per lo più, la critica colloca l’apice e con ragione. Se si riflette, allora, sul lavoro fatto da Gilliam e dalla co-regista Leah Hausman, si nota come non venga affatto esagerato il confronto Berlioz-Cellini, “bandito di genio” secondo il giudizio del compositore stesso.
Quello che Berlioz volle dire è il coinvolgimento del musicista con quello che egli pensava fosse stato l’ambiente degli orefici toscani, maghi dell’arte, capaci di esaltare la materia più bella che esista, l’oro. 

L’IDOLO VISIVO
E’ l’oro (come poi nella Tetralogia wagneriana) l’idolo visivo e emotivo del Benvenuto Cellini. A un certo punto il libretto dice che ci sono quattro arti fondamentali: la pittura, la scultura, l’architettura e l’oreficeria. Ma è proprio questa la quintessenza dell’arte musicale di Berlioz: il cesello, strumento dell’orefice, che rende gigantesco il risultato di un esercizio virtuosistico esercitato su superfici anche piccolissime, perché il cesellatore è di per sé un titano dell’ arte dato che ci fa vedere la complessità e la difficolta in sé dentro la preziosità in sé. 

LA PASSIONE
E così è la musica di Berlioz, magistrale elaborazione di un cesellatore in grado di mutare in continuazione atmosfera e espressioni anche nel lasso di dieci battute. L’opera racconta una storia appassionata con tutti gli ingredienti del caso: amori contrastati, tradimenti, travestimenti. Ma non c’è passione fremente e incondizionata nella musica di Berlioz così come nella funambolica messa in scena di Gilliam, che sembra aver riadattato alle sue esigenze la grande pittura francese tra Delacroix e Courbet, insieme con le stampe del Piranesi e di Pinelli, con quegli assembramenti di persone che quasi soffocano lo spazio in cui si muovono, immobili e turbolenti al contempo. Ma ci vuole attenzione e pazienza perché questi grandi spiriti concedono poco e Berlioz tutto è meno che scorrevole e edonistico. E’ bellissimo, però.
 
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