«Il mio amore gay senza conflitti», Luca Guadagnino parla del suo film “Call Me by Your Name”

«Il mio amore gay senza conflitti», Luca Guadagnino parla del suo film “Call Me by Your Name”
di Ilaria Ravarino
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Martedì 14 Febbraio 2017, 00:59 - Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 16:35
Berlino - Un film ad alto tasso di sensualità, erotico ma mai esplicito, eppure abbastanza estremo da permettersi di trasformare, in una sequenza che è già cult, un frutto “innocente” come una pesca in un sospirato oggetto di desiderio. Tratto dall’omonimo romanzo di André Aciman e reduce dal buon risultato riscosso al Sundance Film Festival, Call Me by Your Name di Luca Guadagnino ha scaldato ieri la Berlinale, portando in scena l’attrazione rovente tra un ragazzino di vent’anni, interpretato da Timothée Chalamet, e un fascinoso americano venuto in Italia per lavoro, con il volto (e gli addominali) di Arnie Hammer. Impegnato in questi giorni nella post-produzione del suo prossimo film, il remake di Suspiria di Dario Argento («Sarà un film sulla ricerca dell’identità e sulla contraddizione psicoanalitica dell’essere attratti da ciò che ci fa paura»), Guadagnino ha cercato di gettare un ponte tra i suoi due ultimi progetti, apparentemente molto distanti fra loro. «Mi piace sperimentare film diversi, sono come un’ape che vola di fiore in fiore. Prima di morire voglio girare un western e un film come Mike Nichols, che amo».

Perché adattare il romanzo di Aciman?
«Mi ha colpito la possibilità di raccontare una stagione della vita, quella in cui tutto ti sembra possibile, quella in cui credi che ogni cosa durerà per sempre. E poi mi piaceva l’idea di comunicare il senso di un desiderio sereno, senza conflitti: la vita sarebbe bellissima se sapessimo accogliere l’altro con leggerezza».

Il rapporto tra i due amanti, però, è problematico. Anche per ragioni d’età...
«Non ci vedo nulla di controverso nel loro amore. Anzi. Ho pensato di girare questo film come se fosse un film per tutti, per famiglie. Non volevo assolutamente essere provocatorio, lo sono forse stato troppo nel mio film precedente (A Bigger Splash, ndr). Volevo fare un film di quelli che ti fanno sentire bene quando finiscono, non volevo polarizzare i sentimenti e nemmeno essere troppo esplicito. Il libro lo è molto di più.

La scena della pesca, però, non è esattamente per famiglie.
«Quando ho letto quella scena nel libro mi sono imbarazzato moltissimo, non pensavo di girarla. Pensavo che fosse una di quelle invenzioni letterarie che funzionano sulla pagina scritta, ma quando poi le guardi in un cinema, in mezzo a tanti sconosciuti... non so, mi sembrava tutto impossibile da filmare. Ma per i lettori del romanzo la scena della pesca era una specie di cult, e se non l’avessi girata mi avrebbero distrutto. Allora ho deciso di provarci. Ho fatto due cose. Prima di tutto mi sono assicurato che tecnicamente fosse possibile usare la pesca in quel modo. E poi ho girato la scena concentrandomi sul frutto, trattandolo come un oggetto sensuale, morbido e succoso. Non è stato facile».

Perché ha scelto la fisicità molto maschile di Arnie Hammer? 
«Perché è uno dei migliori attori della sua generazione. L’ho visto in The social network e mi è subito piaciuto. Credo che tutti i film siano storie d’amore tra il regista e i suoi attori, e Arnie è il tipo d’uomo che si fa amare. La buona notizia è che, finito il film, lo desidero ancora. Il nostro non è stato un affare da una notte sola».

È stato difficile guidarlo nelle scene d’amore?
«No, avevo molta fiducia nella fisicità dei miei attori. Faccio un esempio: c’è una scena in cui hanno appena fatto l’amore, e il personaggio di Arnie si accorge che il ragazzo è freddo, distante. In sceneggiatura erano previste cinque pagine di dialogo, abbiamo tagliato tutto. Ho fatto vedere a Arnie una sequenza con Debra Winger ne Il tè nel deserto di Bertolucci e gli ho detto: voglio lo sguardo di Debra, perso ma felice. E lui ha capito».

Si aspettava il successo al Sundance?
«Se mi aspettassi di avere buone recensioni ogni volta che faccio un film sarei uno sciocco. E purtroppo ci sono tanti registi che lo fanno. Non penso che niente mi sia dovuto nella vita né nel lavoro. Al Sundance hanno amato il film ed è stato fantastico, ma certamente ci sarà qualcuno cui non piacerà. Pazienza. È bello leggere le recensioni, quando sono scritte bene: buone o cattive, c’è sempre qualcosa da imparare». 
 
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