L’artrosi nell’antica Roma

L’artrosi nell’antica Roma
di Laura Larcan e Carla Massi
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Mercoledì 20 Gennaio 2016, 00:50 - Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 15:30
Come diciotto secoli fa. Ci assomigliavano in tutto e per tutto i romani dell’età Imperiale. Anche loro soffrivano di artrosi (ma i primi segni arrivavano a trent’anni), di degenerazioni alle cartilagini, di fratture del femore e tumori alle ossa. Ma erano più capaci di noi a sopportare il dolore e, soprattutto, lavoravano nei campi e nei cantieri, anche con spalle e tibie rotte. Si caricavano sacchi di sale e mattoni senza un lamento. Fino a “modellare” le ossa danneggiate e trasformare l’assetto dello scheletro.

 

Come ha dimostrato lo studio di oltre duemila individui che hanno vissuto a Roma e dintorni ai tempi dell’Impero (I-III sec. d.C). Ai raggi X sono state passate le loro ossa, “lette” con risonanza e Tac. L’obiettivo era quello di identificare le patologie ortopediche che affliggevano allora uomini, donne e bambini. Una mega ricerca che si è trasformata in un testo scientifico edito in inglese dalla casa editrice Springer. Il titolo: «Bones, orthopaedic pathologies in Roman Imperial Age» (Ossa, le patologie ortopediche nell’età imperiale romana). L’indagine, condotta da un gruppo di esperti di diverse discipline (ortopedici, paleopatologi, radiologi, archeologi e storici della medicina) è frutto della collaborazione tra la la Società italiana di ortopedia e traumatologia, la Siot, che ha proposto e finanziato il lavoro, il settore di Antropologia della Soprintendenza speciale per il Colosseo, il museo Nazionale Romano, l’area Archeologia di Roma e la cattedra di Storia della Medicina della Sapienza.

L’EMOZIONE
Sotto gli occhi degli specialisti sono passate migliaia di immagini, una carrellata di patologie delle ossa in un periodo in cui la chirurgia poteva fare ben poco. Parla di «enorme stupore» davanti ai reperti Andrea Piccioli, ortopedico oncologo direttore del “Giornale italiano di ortopedia e traumatologia”, segretario della Siot che ha “fatto le diagnosi” con la collaborazione dell’ortopedica Maria Silvia Spinelli: «Abbiamo scattato la fotografia di un’epoca con storie di uomini e malattie che ci hanno sorpreso e, a volte emozionato. Oggi è impossibile anche solo pensare di vivere con quelle sofferenze fisiche. Alcuni reperti ci sono apparsi così particolari che non potevano non presupporre delle buone conoscenze sulle tecniche di guarigione dell’osso».

SPOON RIVER
I casi più significativi provengono da tre necropoli. Il cimitero di Castel Malnome che gli archeologi hanno ribattezzato la “Spoon River dell’età imperiale” sulla via Portuense, ha restituito 300 sepolture. «Dal punto di vista demografico è stata una sorpresa - racconta Paola Catalano antropologa della Soprintendenza ai beni archeologici di Roma - le sepolture rispecchiano una comunità maschile impegnata nel lavoro delle saline. Le ossa hanno testimoniato violenti traumi, segno che le persone svolgevano un lavoro stressante e anche pericoloso». A Casal Bertone gli studiosi hanno scoperto un sepolcreto di 240 individui vicino a una grande “fullonica” (la lavanderia dell’epoca). «Qui sono emersi casi di infezioni collegate alle condizioni ambientali poco salubri - avverte l’antropologa - Nella fullonica il lavoro degli uomini prevedeva la pigiatura dentro contenitori pieni di urina». Fino alla necropoli Collatina che ha restituito 3000 individui. Dalla scoperta sul campo allo studio in laboratorio, le ossa consentono, per dirla con Valentina Gazzaniga, docente di Storia della Medicina della Sapienza, di ricostruire un quadro sociale della Roma imperiale. «Dal fenomeno patologico siamo arrivati a interpretare lo stile di vita. I romani avevano competenze altissime nel trattamento di situazioni complesse. I loro interventi consentivano la guarigione di fratture che oggi sembrano incredibili. Questo lavoro ci consente oggi di mettere l’accento sugli stili di vita: come mangiavano ma anche sul modo in cui la comunità assisteva le persone malate».
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