Il jazzista Fresu: «Questo vuoto ci porta a ripensare la nostra creatività»

Paolo Fresu, musicista jazz
di Simona Antonucci
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Venerdì 3 Aprile 2020, 12:26 - Ultimo aggiornamento: 5 Aprile, 19:37

Ogni pagina di storia ha una voce e molti cambiamenti epocali della società sono accompagnati da colonne sonore. Verdi tradusse in spartito il Risorgimento. Gli anni Venti brillarono anche grazie al charleston e al jazz. Il rock ha fatto ballare il ‘68, Michael Jackson gli anni Ottanta... Ma qual è il suono di questi giorni, in isolamento per il coronavirus? «Essenziale. Chiusi in casa, torniamo a fare musica come quando eravamo giovanissimi, agli inizi, e sognavamo di diventare famosi: con uno strumento in mano. E basta. Einstein diceva che nei momenti di vuoto, di difficoltà, nascono le opportunità migliori. Chissà? Sicuramente, oggi, siamo chiamati a ripensare la nostra creatività».


Paolo Fresu, 59 anni, tra i più grandi jazzisti italiani, protagonista della manifestazione #iorestoacasa del jazz, organizzata dal Parco della Musica di Roma, cui hanno aderito anche Rava, Bollani, Bosso, Pieranunzi, l’altro giorno ha postato un suo solo, sul tema “Non ti scordar di me”, dal giardino di casa sua, in maglietta e tromba, tra le margherite.

Il musicista sardo, culturalmente onnivoro e poliedrico, che ha suonato in ogni continente e con i nomi più importanti della musica, inciso 400 dischi e fondato un’etichetta che ha lanciato nuove generazioni di interpreti, sta reinventando, in questi giorni, un suo jazz da “contagio”.

Come?

«Lo studio di registrazione, che all’inizio consideravo un impedimento, poi è diventato indispensabile, quasi uno strumento. Mi sono sempre rifiutato di farne a meno. E invece, una settimana fa, per un programma a sostegno dell’ospedale di Bergamo, ho fatto una delle session più spericolate della mia vita. Mentre ascoltavo un nastro in cuffia, trasmettevo la mia tromba al telefono. Che poi per un qualche miracolo è stata rielaborata in un duo. Non credo che operazioni del genere possano essere proponibili in futuro, la tecnologia ormai è parte integrante della composizione. Ma sicuramente, dimensioni più povere, come quella che stiamo temporaneamente vivendo, possono diventare uno stimolo per la fantasia. E quindi, mi sono attrezzato per proseguire».

Con quale strumentazione?

«Diciamo che la mia quarantena è divisa in due momenti. Lo spartiacque è stato l’acquisto di una scheda audio che mi ha aperto un mondo. Sto lavorando a una nuova traccia, partendo da un progetto con Uri Caine. Appena sono pronto la metto online».

Sarà “contaminata” dall’atmosfera buia che ha spento i concerti in tutto il mondo?

«Forse. Ma ritornando, appunto, al discorso sulla musica del coronavirus, direi che i suoni in questo momento, sono due. Digitali, perché è grazie al digitale che riusciamo a oltrepassare le pareti di casa. Chissà quando risuoneremo live. Ed essenziali, perché privi di tutta la strumentazione cui siamo abituati. Ma, a prescindere dai suoni, trovo che la musica, in questi giorni, sia il linguaggio della solidarietà. E mi auguro che non si dimentichi. E che gli interventi per sostenere un settore piegato da questa crisi, siano congrui».

Lo streaming non aiuta?

«No. Sembra assurdo, ma le vendite sono calate del 20, 25 per cento. Forse perché sono tutti sui social. Ma se da una parte le persone si stanno abituando all’idea di fare acquisti di beni primari online, dall’altra, il pubblico virtuale che pensa di pagare per ascoltare dischi sta diminuendo. Come se la musica fosse nulla e non un prodotto costruito con un lavoro professionale. Con Ada Montellanico, Simone Graziano e altri colleghi abbiamo organizzato una petizione, #velesuoniamo, per tamponare il presente. Ci sono colleghi alla canna del gas. Ma soprattutto per studiare un sistema per il futuro. La cultura è parte dell’economia italiana».

Il suo festival a Berchidda ha portato nelle mappe turistiche del mondo un piccolo paese sardo.

«E’ stato calcolato che il festival produce un indotto di tre milioni in un centro di neanche tremila anime. Chissà se questa estate si riuscirà a fare».

Quali altri progetti sono stati bloccati dall’emergenza sanitaria?

«Una miriade di concerti. Il tour per i dieci anni della mia etichetta Tuk, le mostre delle copertine, ideate da illustratori di tutto il mondo. E tanto altro. Abbiamo invece conservato il calendario delle uscite dei dischi. Sarà soltanto in digitale. Come il mio re-Wanderlust, una rivisitazione con il mio quintetto di un album di 23 anni fa. Anche perché la ripresa sarà molto affollata e si rischia di venire travolti da tutte le uscite, tutte insieme».

Lei ha suonato con Dave Holland e Ornella Vanoni, Richard Galliano e Paola Turci, D’Andrea e Sangiorgi: con chi vorrebbe intrecciare nuove sonorità?

«Ho fatto mia una frase di Duke Ellington: esistono due tipi di musica, la musica buona e l'altra. L’importante è non avvicinarsi mai all’altra». 

 

 



 

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