Il pianista Lonquich: «I concerti online sono un'arma a doppio taglio»

Il pianista tedesco Alexander Lonquich
di Simona Antonucci
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Lunedì 20 Aprile 2020, 16:09 - Ultimo aggiornamento: 17:03

«Musica dai balconi non ne ho sentita. Qui a Porta Romana, dove abito con mia moglie e una cagnolina, è tutto molto disciplinato. E comunque non avrei mai partecipato. Sentimentalismi. Capisco che se ne possa aver bisogno. Ma mi danno fastidio certe manifestazioni esasperate di patriottismo, in un momento in cui c’è assoluto bisogno di essere collegati al resto d’Europa».

Alexander Lonquich, pianista tedesco e del mondo, 59 anni, trascorre la quarantena a Firenze, sua residenza. Lonquich, oltre che un interprete richiesto ovunque nel mondo (in questi mesi avrebbe dovuto suonare tra Bordeaux e Salisburgo, al Maggio e a Santa Cecilia) è anche un artista eclettico (direttore d’orchestra) e un infaticabile ricercatore.

 

 



In solitudine o nel laboratorio di famiglia fiorentino Kantoratelier che coltiva insieme con la moglie, la collega Cristina Barbuti, crea ponti tra temi musicali e le mille sottili relazioni che intrecciano passato e presente, storia, letteratura, arti visive, psicanalisi, grande repertorio classico e contemporaneo.

Ma l’unico progetto che riesce ad andare in porto, in questi giorni, tra mille bloccati per l’emergenza sanitaria, è l’uscita per Alpha il 24 aprile dell’opera omnia delle composizioni per pianoforte e per violoncello di Beethoven: tutte registrate su strumenti antichi nel Teldex Studio di Berlino con l’amico Nicolas Altstaedt.

Nell’anno dei 250 anni della nascita, Beethoven è stato celebrato in ogni modo e ovunque. Qual è il suo contributo?
«La nostra è una registrazione con strumenti storici. Non ne esistono molte. Suono un fortepiano Conrad Grafdel 1826, una tastiera che Beethoven avrebbe potuto utilizzare negli ultimi anni della sua attività. Per le prime Sonate avremmo anche potuto sceglierne una del Settecento, ma ci è piaciuta l'idea di identificarci nei probabili desideri dell'autore in età avanzata
».

Il risultato?
«Le sonorità sono di base più trasparenti. Il rapporto con il violoncello è perfettamente paritario. Inoltre emergono colori pianistici non disponibili sullo strumento moderno. Un’operazione che ci ha permesso di affrontare Beethoven approfondendo l’aspetto linguistico e l’introspezione emotiva. Il disco uscirà in streaming e poi quando i negozi riapriranno...».

In questi giorni, e per molti altri ancora, la musica sopravvive soltanto online. Non c’è un piano chiaro per la ripresa dei concerti. Lei che cosa ne pensa?
«Trovo che i concerti online siano un’arma a doppio taglio. E' stato giusto all'inizio, certo. Ma diffondendoli sul web, gratis, mentre il calcio o il cinema sono a pagamento, si rischia di alimentare la sensazione che suonare non sia frutto di un lavoro. È stato generoso da parte dei Berliner rendere pubblico per un mese il loro sito. Stanno inoltre contribuendo anche economicamente al sostegno degli artisti freelance. Infatti un'intera categoria teme per la propria sopravvivenza quotidiana e non percepisce neanche un centesimo sui diritti delle registrazioni. E' dovere degli Stati, intervenire sull'improvvisa indigenza dei settori creativi che saranno anche gli ultimi a uscire dalla crisi
».

Secondo alcune previsioni, i teatri, le sale da concerto e i cinema riapriranno all’inizio del 2021. All’estero come si stanno organizzando?
«In Germania hanno persino organizzato dei live dentro dei drive in. Ci si sta orientando inizialmente verso un repertorio di musica da camera ma non c’è ancora un piano chiaro per il settore. Capisco che l’Italia sia stato il primo Paese europeo a essere travolto da questo disastro. Sono inevitabili dei momenti di panico, ma adesso è necessaria un po’ più di razionalità. Se riaprono i ristoranti e i bar, non capisco perché non si possano fare concerti. Con piccoli organici, per un pubblico ridotto. E magari più repliche al giorno: nessuno di noi si tirerebbe indietro».

Ferma anche l’attività del laboratorio?
«Impossibile incontrarsi. E via chat non ha senso. Le nostre sono esperienze di gruppo. Dinamiche, connesse con il teatro, che si basano sulla propriocezione. Cerchiamo di avvicinarci all’arte dilatando lo sguardo. In particolare, con il progetto Daedalus, lavoriamo assieme a giovani musicisti, per aiutarli a personalizzare il loro profilo di artisti e quindi far loro scoprire prospettive anche inedite per il futuro. Una partecipante, ha avviato una ricerca sulla musica nel campo di Terezin, ha raccolto materiali e ora oltre che essere pianista è anche documentarista. Altri hanno avviato attività teatrali. Sempre con collegamenti musicali».

Le è utile l'interesse per la psicanalisi?
«Frequento la psicanalisi, le psicoterapie come anche la letteratura della pedagogia teatrale da molti anni.
E questo ha portato me e mia moglie (che ha compiuto studi ufficiali in questo senso) a concepire sia Kantoratelier sia Dædalus. Solitamente, quando un ragazzo termina gli studi al conservatorio si indirizza verso un’attività concertistica. Muovendosi in contatto con altre discipline emergono attitudini sorprendenti
».

Lei è considerato un musicista intellettuale e la sua casa una sorta di cenacolo. Le piace?
«Ho una grande fede nella multidisciplinarietà. E nella trasversalità della percezione. Sinestesia? Mi piace credere nella ricchezza dell’immaginazione, stimolarla, connettere i fili conduttori che ci portano a comprendere la musica. E, forse, anche un po' la vita».








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