«Organi e cellule di maiale per i trapianti, la sperimentazione bloccata a Napoli»

«Organi e cellule di maiale per i trapianti, la sperimentazione bloccata a Napoli»
di Maria Pirro
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Giovedì 21 Ottobre 2021, 15:01 - Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 07:19

Organi di maiale geneticamente modificati per i trapianti. Se ne parla oggi per l'intervento senza precedenti eseguito negli Stati Uniti. Ma risale a 20 anni fa una sperimentazione simile realizzata al Cardarelli di Napoli da Fulvio Calise, allora primario di chirurgia epatobiliare. 

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L'intervento negli Stati Uniti apre nuovi scenari?«Non credo ci sia al momento una prospettiva di impiego per questo tipo di organi. Già da tempo, l'utilizzo è bloccato per timore del rigetto dell'organo stesso e possibili trasmissioni di patogeni avversi».

Allora com'è stato possibile il trapianto alla New York University Langone Health?
«Ha interessato una paziente in morte cerebale.

Con il consenso dei familiari. Inoltre, c'è un altro dato da sottovalutare. L'organo non è stato impiantato, ma collegato all'esterno dell'organismo, ai vasi femorali».

Al Cardarelli questa soluzione ponte è stata usata in attesa del trapianto fegato.
«Sì, utilizzando gli epatociti del maiale».

Per l'esattezza, dieci miliardi di epatociti, opportunamente trattati, venivano caricati nel fegato bio-artificiale collegato al paziente. E, per 14 persone, questa strategia ha consentito di attendere fino a 69 ore l’organo vero da utilizzare. Poi è arrivato l’altolà, stabilito dall'Unione europa. Per motivi etici, che ha bloccato le attività di ricerca.
«Senza fare distinzioni tra le cellule utilizzate: le nostre avevano una funzione esclusivamente metabolica, non contenevano anche il tessuto che produce poi gli anticorpi avversi al sistema genetico del ricevente».

Obiettivo: limitare le possibilità di rigetto.
«Esatto. Nel nostro caso, 10 pazienti su 14 sono sopravvissuti: tutti colpiti da epatiti fulminanti e tenuti in vita con le celule di maiale nel fegato bioartificale e in attesa del trapianto con l'organo ricevuto da un donatore. Di recente, abbiamo festeggiato anche il 20esimo anniversario di un trattamento con cellule xenogeniche eseguito per 38 ore, con due fegati artificiali in perfusione esterna, per tenere in vita una donna finita in rianimazione per una epatite B contratta a causa di un tatuaggio».«Per 3 giorni, nel caso americano non c'è stato rigetto, ma quello tardivo è sempre possibile. Occorre cautela nel giudicare».

È comunque un passo in avanti.
«Certamente, ma dalla nostra sperimentazione sono passati 20 anni e non se n'è fatto più nulla. Restano bloccati questi tipi di interventi sull'uomo».

Ritiene sia l'ora di accelerare su questi trapianti?
«Oggi il vero imperativo è puntare sulla prevenzione, perché è possibile ridurre il numero di interventi salvavita che comunque garantiscono un tempo di sopravvivenza dell'organo limitato nel tempo».

Cosa suggerisce?
«Una priorità è contrastare l'obesità, alto fattore di rischio: un trapianto al fegato su cinque oggi è per un epatocarcinoma su una malattia metabolica. Per lo meno per i prossimi dieci anni, non credo possa diventare realtà il trapianto transgenico. Ma la ricerca deve continuare: come dimostra il Covid, ci attendono purtroppo sempre nuove sfide e dobbiamo essere pronti a considerare tutte le possibilità».

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