I Marillion tornano in Italia: il 3 ottobre il concerto a Roma

I Marillion tornano in Italia: il 3 ottobre il concerto a Roma
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Sabato 30 Settembre 2017, 16:59 - Ultimo aggiornamento: 3 Ottobre, 09:22
I Marillion tornano in Italia per due concerti dopo l’unica data veronese del 10 settembre 2016. Il loro ultimo album, FEAR, è stato portato in giro per il mondo con concerti quasi sempre da tutto esaurito, senza grossa promozione e pubblicità. Segno di un affetto tangibile e non facilmente replicabile in altri ambiti. Solo due date in Italia: martedì 3 ottobre a Roma, Auditorium Parco della Musica (Sala S. Cecilia), mercoledì 4 ottobre a Milano, Teatro degli Arcimboldi.

Di seguito l’intervista collettiva ai membri del gruppo realizzata per Prog Italia 14, che tranne la prima risposta saranno riportati con le iniziali.
Steve Rothery: S.R. – Steve Hogarth: S.H. – Pete Trewavas: P.T. – Mark Kelly: M.K. – Ian Mosley: I.M.

FEAR segna il ritorno a composizioni più complesse, dopo una serie di album più semplici, senza, tuttavia, risultare datato. Ci ricorda vostre opere come BRAVE e MARBLES. Pensate che un giorno potrà essere considerato uno dei vostri capolavori?
Pete Trewavas: Sì, secondo me verrà visto come uno dei nostri lavori migliori. Potresti quasi dire che ha il DNA dei Marillion che lo attraversa negli arrangiamenti, incredibilmente complessi e con un’attenzione maniacale ai particolari, che può esserci solo se ti dedichi totalmente alla musica. C’è un motivo per cui i nostri dischi escono ogni 4/5 anni: non smettiamo di essere creativi, solo dobbiamo incanalare le nostre idee musicali nel contesto adatto per far partire il viaggio che porta a un disco nuovo. Devo sottolineare che la stessa attenzione la pone anche Mike Hunter, il nostro produttore.

Avete detto che l’album è molto scuro e con testi difficili, la sensazione di paura del mondo moderno è palpabile ovunque. La stessa New Kings fu ispirata dai nuovi russi, per esempio, e, in breve, FEAR esprime un misto di ansia e impotenza. in che modo spiegheresti questo concetto?
Steve Hogarth: È una sensazione di paura per il futuro, in realtà. New Kings parla anche della gente che dirige le banche e non solo dei nuovi super ricchi russi. Riguarda la sensazione che chi possiede così tanti soldi sia al di là della legge e della stessa società, può decidere di deriderci quotidianamente. Eldorado parla della paura di perdere il nostro benessere materiale e come ciò finisce per corrompere la nostra moralità. L’oro… mi vergogno particolarmente per il nostro Paese che ha deciso di ignorare i senzatetto, i deboli e i disperati. Noi costruiamo dei campi per i rifugiati ma che tipo di paese civile mette i bambini orfani in campi per rifugiati? La mia paura per il futuro è peggiorata da quando ho scritto i testi, speravo di essere nel torto eppure abbiamo avuto la Brexit, l’elezione di Trump, il governo inglese che patteggia con i fondamentalisti cristiani. Chissà cosa ci riserva il futuro?

Un’altra domanda sui testi, a proposito di The Leavers, che prevedeva la Brexit, anche se parla di tutt’altro. Il mondo in generale non sembra essere in buono stato in questo momento. Che tipo di società stiamo lasciando ai nostri figli? Voi, come gruppo, avete un messaggio da dare?
S.H.: Lasceremo un mondo molto buio per i nostri figli, smettiamo di contare i nostri soldi e guardiamoci nel cuore. Non posso parlare per nessun altro del gruppo ma il mio messaggio è che tutti nel mondo siamo uguali dentro (citando il finale di The Space del 1989), tutti ridiamo, amiamo, piangiamo, mangiamo, dormiamo. Dobbiamo smettere di fingere di essere diversi. Siamo solo persone e dobbiamo imparare a sentire il dolore degli altri.

Eldorado è ispirato alla guerra in Iraq, il brano che apriva l’album precedente parlava della striscia di Gaza. Come scrivi i testi per canzoni così? Vengono prima della musica e la ispirano?
S.H.: Sì, vengono prima della musica, sono provati con diverse idee musicali, solo dopo decidiamo quale sarà il contesto migliore per le parole. La musica comincia sotto forma di jam session, quindi una cosa improvvisata in studio. Una volta decisa la direzione usiamo quello che abbiamo e cerchiamo di costruisci attorno la canzone. Le canzoni sono lunghe solo perché i miei testi contengono molte parole!

Una domanda per Mark; com’è stata scritta la musica per FEAR? Negli ultimi dischi sembravi molto più sullo sfondo ma questa volta sei decisamente tornato in primo piano.
Mark Kelly: Iniziamo a comporre le canzoni sempre allo stesso modo, improvvisando in studio. Con FEAR, ma anche in parte con il disco precedente, molte idee iniziali arrivano dalle mie tastiere, vengono dai suoni semplicemente provando in maniera non strutturata, cercando di capire cosa emerge. Un processo inconsapevole in cui non penso mai a ciò che sto suonando. Partire da un soundscape, da una bella progressione di accordi, per arrivare a un brano definito può risultare un processo molto lungo, può richiedere la partecipazione di tutto il gruppo ma anche di Mike Hunter, il nostro produttore. Senza la chimica che lega la band le mie idee sarebbero semplicemente dei punti di partenza interessanti. Ovviamente anche i testi servono per decidere che tipo di musica eseguire e in che direzione portarla. La musica deve riflettere il significato delle parole, succede spesso che molte delle idee che funzionano meglio partono proprio dalle mie parti di tastiere.

Un’altra domanda Mark. Stiamo ancora aspettando il tuo disco di esordio solista…
M.K.: Lavorare per un disco solista per me è difficile. Senza il resto del gruppo con cui lavorare non arrivo mai in un posto musicale che mi soddisfa. Vorrei realizzarlo ma ci sto impiegando molto più tempo del previsto!

Qual è la fonte d’ispirazione quando state lavorando a un nuovo album? Portate della musica già scritta o improvvisate tutto in studio?
Ian Mosley: In tutta la nostra carriera non ricordo un componente che sia entrato in studio con un pezzo completo. Il nostro processo di scrittura è molto organico, siamo semplicemente noi nello studio che suoniamo, registriamo ogni nota nella speranza di trovare per caso il momento magico. Una volta che abbiamo abbastanza idee prendiamo le nostre preferite e le sviluppiamo.
P.T.: Di solito uso le parti che vengono fuori improvvisando in studio. Trovo più facile presentare le mie idee con il basso in mano piuttosto che andare alle registrazioni con una demo. Se ci tengo proprio a comunicare un’idea più completa uso un loop master, in questo modo comunico il potenziale senza dettare le parti che gli altri dovranno suonare. Preferisco sempre partire da un’idea e vedere in che modo svilupparla collettivamente.

I Beatles avevano il quinto componente in sir George Martin, James Guthrie ha avuto un ruolo simile nei Pink Floyd; dato che voi siete già in cinque, come potremmo definire Mike Hunter?
I.M.: È un genio che lavora con noi da molti anni, sembra sapere come ricavare le prestazioni migliori da ognuno. Per quanto mi riguarda è il sesto componente dei Marillion.
P.T.: Anche per me è diventato il sesto componente del gruppo, non riuscirei a vedere una situazione in cui lui non lavora con noi.

Nonostante il gruppo abbia avuto un’evoluzione piuttosto lineare, c’è stato un disco molto innovativo nella vostra carriera, RADIATION, in cui il gruppo ha messo in discussione tutto ciò che era stato fino a quel momento.
Steve Rothery: È stato un tentativo di fare qualcosa di diverso dal punto di vista musicale, suonare in maniera più attuale. Oggi ho dei sentimenti variegati riguardo a quel disco. Alcuni brani li ascolto volentieri, altri trovo abbiano una durezza che poi hanno reso l’ascolto successivo molto difficile. Tutto ciò è stato migliorato nel remix fatto successivamente da Hunter.

Qualche anno dopo con ANORAKNOPHOBIA avete rivoluzionato la relazione con i fan: rendendo grazie a loro la vostra attività più sostenibile, specialmente in un momento difficile per l’industria discografica. Poi avete escogitato l’idea per i Marillion weekend, che rimane qualcosa di unico: tre giorni straordinari nell’ascoltare musica e condividere esperienze con altri fan del gruppo. Avete intenzione di continuare lungo per questa strada?
S.R.: Credo che continueremo con i Marillion weekend finché saremo insieme e fisicamente in grado di realizzarli. Penso che ne faremo di più nel 2019 ma dobbiamo essere realistici, capire che non ce ne rimangono moltissimi. Tra dieci anni non mi ci vedo a continuare come oggi.

Avete dei fan molto fedeli ma è un affetto meritato, dato che li seguite in modi che altri gruppi non hanno mai pensato di fare. Avete realizzato dei Cd esclusivi, di solito nel periodo natalizio, per esempio. Questi lavori mostrano un lato diverso del gruppo anche per quanto riguarda il look, chi è responsabile di queste trovate?
S.R.: Tutti insieme pensiamo a diverse opzioni per il Cd natalizio, qualche volta è una registrazione dal vivo mentre altre volte un rifacimento di qualche canzone, però ogni anno diventa più difficile trovare qualcosa di diverso.

Cosa ci sarà dopo FEAR per i Marillion? Cosa farete per reinventarvi in futuro?
S.H.: Dovremo reinventarci nuovamente. Non riusciremo a superare FEAR senza qualcosa di radicale. Fa un po’ paura a pensarci adesso. Vedremo.
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