Gino Paoli: «Tenco sarebbe vivo se non avessimo rotto»

Gino Paoli: «Tenco sarebbe vivo se non avessimo rotto»
di Marco Molendini
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Lunedì 8 Maggio 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 31 Luglio, 12:40

Gino e Luigi, storia di un’amicizia perduta e mai finita. Ancora oggi, cinquant’anni dopo, Paoli vive rammarichi profondi: «Se non avessi rotto con lui, non si sarebbe ammazzato» assicura, andando indietro con la memoria a quei tempi lontani, al suono sordo di un colpo di pistola nel posto più rumoroso possibile, il Festival di Sanremo. Il ricordo è accompagnato da un sentimento profondo, che rivive quando canta le canzoni dell’amico, come farà il 9 luglio a Umbria jazz, in una serata dedicata a Tenco e ai cantautori divisa con Giuliano Sangiorgi, Gaetano Curreri, Paolo Fresu, Danilo Rea e Mauro Ottolini, estroso musicista che ha arrangiato per orchestra i suoi pezzi. Parlare di Luigi per Gino è come parlare di se stesso, gioie e dolori, spacconate e il gusto delle cose perdute che si ha quando si diventa grandi.

Quando vi siete conosciuti?
«Da ragazzi, una mia amica, Federica, mi portò a teatro a vedere una piéce in cui lei recitava e Luigi era il regista. Fra di noi ci fu un colpo di fulmine fatto di sogni: io vedevo lui come attore, lui vedeva me come regista».

 


Cosa vi univa?
«Avevamo la stessa testa, anche se io ero un po’ più grande. Vivevamo lo spirito e la curiosità del dopoguerra. Eravamo affascinati dagli scrittori americani come Steinbeck, da Simone De Beauvoir e da Sartre che interpretava lo spirito di provvisorietà tipico di quei tempi e ha alimentato il nostro spirito ribelle».

Illusioni da gioventù bruciata all’italiana.
«A Genova noi ribelli eravamo una decina, ci conoscevamo tutti. Impazzivamo per James Dean e scoprimmo il rock col film Il seme della violenza e Bill Haley che cantava Rock around the clock».

Vi divertivate a sfidare la vita come James Dean in Gioventù bruciata?
«Facevamo a chi arrivava prima a Roma in macchina o a chi resisteva di più con la sigaretta accesa. Era una sfida cosciente, non cattiva, da amici».

E con le donne? Per Stefania Sandrelli non vi siete più rivolti la parola.
«Sono stato io a tagliare i ponti. Ma col senno di poi mi dispiace, è una cosa che mi è rimasta sempre di traverso. Dovevamo fare a botte e mettere così tutto a posto. Ero molto affezionato a lui. Dividevamo la vita. Quando mi trasferii a Roma presi un piano dell’hotel Hermitage e lui venne con me. Era il fratello più giovane. Ma avevo un caratteraccio».

Anche lui non scherzava.
«Era un figlio di puttana, ma nel caso di Stefania voleva dimostrarmi che aveva ragione, che non dovevo fare un figlio con lei».

Non c’è stata mai invidia professionale?
«Eravamo contenti uno del successo dell’altro. Quando Luigi venne chiamato in Argentina perché la sua canzone Quando era stata usata in una telenovela e trovò un nugolo di ragazze urlanti ad accoglierlo all’aeroporto, tutti quanti noi genovesi ci dicemmo: dobbiamo farcela anche noi all’estero».

Era la prima canzone di Tenco.
«La suonavano tutti in Italia, ma nessuno sapeva che era sua e Luigi si incazzava. La cantavano Peppino di Capri, Fred Bongusto, i numeri uno del momento, e tutte le altre orchestrine dei night, ce ne erano almeno 5 mila, che vivevano imitando il repertorio di chi aveva successo».

La musica non è stata subito la vostra strada.
«E’ arrivata per caso. Io volevo fare il pittore e divenni grafico. Luigi pensava di fare il fisico. Ma intanto facevamo le serate nelle scuole, lui al sax, io alla batteria, c’era anche Lauzi: i risultati erano tremendi. “Non vi picchiamo perché siamo studenti come voi”, ci dissero dopo un concerto».

Però non avete mollato.
«Il primo di noi genovesi ad andare a Milano fu Giampiero Reverberi, assunto alla Ricordi come direttore artistico. Lo seguì Luigi, poi io, poi gli altri. Disse che ci aveva chiamato perché si sentiva solo».

A lei andò subito bene.
«Ma pensavo che sarebbe durata poco e fino al ‘62 ho conservato il mio contratto di grafico».

E già lavorava tanto.
«Però, mi vergognavo. Ricordo che alla Bussola cantavo nascosto dal piano. La prima volta che ho preso i soldi dalla Ricordi, mi feci pagare in contanti. Avevo l’impermeabile gonfio di quelle lenzuola che erano allora le 10 mila lire. Comprai mezzo chilo di tartufi che mangiai con tutta la terra e una Austin Hailey 3000 spider. Ci montai sopra ma non trovai mai la seconda. Sono arrivato in prima ad Alessandria con il motore fuso».

Avete mai scritto qualcosa assieme?
«Ci scambiavamo le idee e soprattutto ascoltavamo gli autori stranieri. Eravamo anche un po’ figli di puttana. Ci sono canzoni costruite su accordi di Aznavour come Ho capito che ti amo, altre da cui prendevamo le parole. Ognuno di noi aveva le sue cotte, De Andrè per Brassens, Lauzi per Cole Porter, io per i francesi. Allora le canzoni italiane non dicevano nulla».

Qual è la canzone di Tenco che le piace di più?
«Vedrai, vedrai, perfetta come musica e parole. Appartiene al periodo in cui cercava il lirismo. Poi è cambiato ed è venuta la fase dell’impegno sociale, in cui non gli fregava più nulla della musica, ma contava solo il racconto. Prendeva sbandate pazzesche, non solo in musica. Se leggeva Marx si sentiva Marx. Adorava Pavese che a me rompeva e gli dicevo di leggere Henry Miller così almeno si divertiva un po’. Quando andava a vedere James Dean per un mese si sentiva James Dean. A un certo punto gli consigliai di vestirsi alla Yul Brinner, a cui assomigliava un po’. Non mi seguì».

Sul suicidio di Luigi è stato scritto di tutto. Lei cosa ricorda?
«Non ci volevo credere. Quando mi sparai io, venne all’ospedale, era arrabbiato e diceva che gente come noi non poteva suicidarsi».

A parte la sua amicizia, il successo avrebbe potuto salvare Luigi?
«Penso di sì. Anche se, quando arriva, il successo ti rende stronzo. Anche io sono diventato stronzo per almeno sei mesi».

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