Francesco De Gregori: «A volte mi chiedo se io non sia stato solo un bluff»

Francesco De Gregori: «A volte mi chiedo se io non sia stato solo un bluff»
di Malcom Pagani
9 Minuti di Lettura
Domenica 26 Marzo 2017, 09:47 - Ultimo aggiornamento: 30 Marzo, 16:31

I marciapiedi di ieri: «Per molto tempo mio padre e mia madre hanno pensato che con il mestiere che avevo scelto, mi sarei trovato presto a vivere in strada». I marciapiedi di oggi: «Ho visto la mia foto in prima pagina mentre con qualche gentiluomo del quartiere spazzavo uno spartitraffico di Roma e mi è parso assurdo. Mi ha infastidito moltissimo. Sembravo Suor Sorriso, mentre in realtà pulire cartacce, escrementi e bottiglie rotte era un gesto assolutamente normale». Ci sono pezzi di vetro e pezzi di vetro: «Non era la prima volta che lo facevo anche se visto il clamore, con ogni probabilità sarà l'ultima, non era una mia iniziativa solitaria, non avevo certo convocato i fotografi e non volevo mandare un messaggio a nessuno».

 

Un ciuffo di giorni ancora e al principio del mese più crudele, Francesco De Gregori compirà 66 anni. Pacchetti di sigarette francesi, quadri alle pareti, riflessioni: «Non so se alla mia età veda le cose in maniera più nitida che da ragazzo, ma oggi so che non pretendere di vederle più così lucidamente è normale e accettabile. A 20 anni mi sembrava che una persona avesse l'obbligo di farsi un'idea del mondo e di darsi una mappa. Adesso credo che rinunciare a questa ambizione confini con l'innocenza e che essere un po' scettici sulla nostra capacità di decifrare ciò che abbiamo intorno, tranquillizzi. Paradossalmente è lucidità anche questa: sapere di non sapere».

La pretesa di decifrare coincideva con la presunzione?
«Era solo naturale. A 30 anni hai un certo passo e una certa velocità: vedi l'autobus passare e lo insegui. A 66 anni no, aspetti quello successivo perché sai che l'esistenza non cambia e non perderai più l'appuntamento della tua vita».

Se si guarda indietro prova più orgoglio o tenerezza?
«Ho seguito il corso della mia vita e mi è capitato anche qualche colpo di fortuna. Ho avuto talento e sorte, ma non so in quale ordine».

Fortune?
«Nascere a Roma, avere il Folkstudio e la Rca a portata di mano e potrei continuare a lungo. Se fossi stato di Crotone, come Rino Gaetano, sarebbe stato tutto più difficile».

Lei è considerato tra i più grandi cantautori italiani di sempre.
«C'è gente che mi stima molto, ma sono veramente stato così bravo come dicono? Me lo merito? Ogni tanto me lo chiedo. E mi domando: sarà vero? E se invece fosse tutto un bluff? Accade di essere sopravvalutati e a forza di sentirsi elogiare per La Donna Cannone o per Rimmel, finisci per credere a quel che ti dicono».

Paolo Sorrentino ha raccontato di come dopo l'Oscar, l'atteggiamento nei suoi confronti sia cambiato.
«Magari un po' anche il mio nei suoi confronti. È inevitabile. Temi che il successo cambi l'altro e lo irrigidisca. Ti rapporti con lui attraverso uno specchio che prima non esisteva. Non lo guardi più come prima. È accaduto anche a me».

È stato difficile essere De Gregori?
«La parte complicata è arrivata dopo aver conquistato il grande pubblico. Certe amicizie si sono inquinate e i gesti di prima- il semplice mandare al diavolo qualcuno, una delle basi della dialettica- sono stati interpretati alla stregua di un manifesto che dimostrava che ero cambiato. Non è più lo stesso- dicevano- si è montato la testa. Probabilmente, a forza di sentirmelo dire, un po' stronzo in quel periodo devo essere anche diventato».

Era invidia?
«Anche. E non ci puoi fare niente, se non attraversare quella fase cercando di mantenerti consapevolmente sdoppiato. Dopo essere diventato un cantante famoso vieni messo in una luce diversa e sei persino ingiustamente odiato da alcuni amici, anche se continui ad andare con loro nelle stesse pizzerie che frequentavi prima. Un po' ho sofferto, ma non è che non ci dormissi la notte. Anche perché, ad essere sinceri fino all'osso, c'era comunque il compiacimento personale per avercela fatta».

Perché alcuni amici la odiavano?
«Fino a quando le mie canzoni piacevano molto a un ristrettissimo numero di persone, tutto andava bene. I membri di una minuscola élite intellettuale apprezzavano il povero cantante che scriveva cose meravigliose comprensibili solo a loro, certi che tanto non ce l'avrebbe mai fatta. Quando il pubblico si allargò e da 30 persone passai a 3.000, subii un un processo di svalutazione perché piacevo anche al volgo. Il meccanismo mi era già molto chiaro all'epoca, e psicologicamente quella consapevolezza mi salvava la vita. Non sono io che sono cambiato, siete voi che siete diventati orrendi- pensavo- io continuo a scrivere le stesse cose».

Il suo ermetismo era voluto?
«No, assolutamente. Erano canzoni incuranti della comprensibilità, le scrivevo come mi andava, non mi importava che si capissero o meno, ma non è che inseguissi l'ermetismo. Per tutta la prima fase della mia carriera ho pensato: Me ne frego del pubblico, prendetemi come sono, non c'è niente da capire e se non mi capite, peggio per voi».

Poi cosa è accaduto?
«Ho cercato la semplicità, mi sono evoluto, ho cambiato linguaggio e poi forse ho sentito il bisogno di essere meno contorto, anche sul piano della melodia. Quando non è più un hobby, ma un lavoro, al pubblico devi arrivare. Essere compresi per un artista è importante».

Cosa le ha tolto il suo lavoro?
«Il professionista si alza, va in ufficio, torna a casa tardi e inevitabilmente sottrae qualcosa agli affetti. Io ho viaggiato di notte per spostarmi e suonare da una città all'altra, ma non vedo differenze. Il mio è un mestiere come gli altri, solo più pittoresco».

Da giovane guardava all'epica maledetta della tradizione americana? Le piaceva tirare tardi e far mattino per dirla con Guccini?
«Forse per un paio d'anni, quando ero un animale solitario e non avevo rapporti stabili. Mi sono divertito un po', senza mai cavalcare l'estetica dello sbando. Nelle biografie di Dylan che ogni tanto mi diletto a leggere, scopro che sulla sua vita, con tanto di fuga da casa, aveva raccontato episodi del tutto inventati. Io non ho mai avuto la tentazione di inventarmi una storia, mi va benissimo quella che ho. Se dovessi mai un giorno scrivere la mia autobiografia, non potrei richiamare nulla che si avvicini a James Dean».

Perché?
«In Italia? Cosa vuole? Quali sono le avventure di un giovane artista italiano? Cosa vai a inventarti? L'infanzia a Pescara, con un padre bibliotecario e un ragazzino che si scotta sulla spiaggia bianca e lunghissima, non equivalgono al mito della frontiera».

A Pescara lei abitò dai 2 ai 9 anni.
«Abitavo vicino al mare e in acqua, con le telline che potevi pescare con le mani e poi mangiare direttamente a riva, trascorrevo 4 mesi l'anno».

Suo padre Giorgio era bibliotecario, sua madre Rita, insegnante.
«Due grandi liberali che hanno protetto con amore me e mio fratello Luigi. Gente sobria e appassionata al proprio lavoro. Mamma, bellissima moralmente e fisicamente, si sbatteva per 16 ore al giorno. Correggeva compiti e preparava lezioni. Ogni tanto mi fermano i miei coetanei e mi parlano di lei: Lo sa che era la mia professoressa alla Trilussa?»

Suo padre invece?
«Se avesse potuto scegliere, avrebbe voluto che facessi il suo mestiere. Un mestiere più utile del mio, ma almeno per me, meno divertente. Né lui né lei, che avevano ricostruito però mi hanno mai impedito di inseguire i miei sogni. In fondo ero un bravo studente, non mi drogavo. Avrò fumato in tutto due canne in 66 anni, ma posso sempre cominciare domani» (Ride)

Che rapporto ha con la memoria?
«Intanto ho da sempre pochissima memoria. Dimentico le cose importanti, ma dimenticarle mi aiuta a essere disincantato nei confronti della vita. E' come se accettassi che tutto può essere dimenticato. Forse il dato sottintende che niente è stato così importante da essere scolpito nella memoria o messo dentro un album».

Forse anche che non ci sono stati grandi dolori.
«Evidentemente no, o forse sono soltanto riuscito a rimuoverli proprio come dicono avvenga con i dolori del parto. Ma non sono una donna e sul tema non posso legiferare».

Per anni lei è stato riottoso a concedersi, oggi sembra sorridere molto di più. Apprezza Zalone, va in tv da Maria De Filippi.
«Trent'anni fa non ci sarei andato. Mi sono addolcito. Ho avuto il mio periodo forastico, quando pensavo che la scarsa socievolezza preservasse la mia autonomia e il mio modo di essere. Vado ad Amici anche se non è la mia tazza di tè preferita e so che devo accettare la possibilità che esista un linguaggio che appartiene a quel programma. Posso chiedere degli aggiustamenti, ma non posso neanche pretendere che si faccia come dico io».

Lo chiamerebbe compromesso ?
«Solo realismo e buona educazione. L'autonomia però l'ho mantenuta. Se De Filippi mette un elemento scenografico, un letto rosa che non mi piace e di fronte al quale non me la sento di cantare, lo dico chiaramente».

Non mi ha detto perché va ad Amici però.
«Perché è il mio mestiere e perché magari voglio conquistare un pubblico che pensa che sia solo un barbuto guevarista degli anni 70 e dopo Rimmel non abbia più scritto niente di importante. Avere 66 anni mi consente di farlo con leggerezza».

Il più grande talento che ha incontrato?
«Lucio Dalla. A prescindere dall'amicizia e dal fatto che in certi periodi non siamo stati neanche tanto amici».

È vero che soffriva l'istrionismo di Dalla durante la prima tournée di Banana Republic?
«Lucio era sovrastante, era molto diverso da me, era immediatamente simpatico. Io no, avevo un altro ruolo. Lui saliva sul palco e prendeva molti più applausi di me. Tre quarti dello stadio lo invocava e un po' soffrivo. Dalla era abile a giocarsela sta cosa, un po' ti voleva fregare. Io lo sapevo e la sua inclinazione non ha mai scalfito la nostra reciproca ammirazione: vera profonda, sostanziale. La rivalità esisteva. La soffriva anche lui. Per quello che rappresentavo. Sotto quell'aspetto, era geloso di me. Mi chiamava il principe, mi addebitava una certa alterità».

Poi ci fu il caso de L'Espresso.
«Quel giornale, che aveva messo Pasolini sul letto dell'obitorio in prima pagina nel novembre del 75, non mi era mai stato simpatico. Quando Michele Mondella ci informò che Giorgio Bocca sarebbe arrivato a Pescara per intervistarci e fare una copertina su di noi andai da Dalla e gli dissi: Non lo facciamo, L'Espresso, vero?. Lui mi rassicurò: Ma certo, fratellino. Poi andò a cena con Bocca e mi ritrovai L'Espresso con il solo Dalla in copertina come fenomeno dell'estate 1979. Io nel pezzo ero del tutto ignorato o quasi, fatta eccezione per un giudizio di Lucio, una cosa del tipo: De Gregori vive in un empireo tutto suo. Mi arrabbiai e la mattina dopo gliene dissi quattro, ma il mio ricordo di quel tour rimane splendido».

Dalla lo fece con animo da Candide?
«Macché, non eravamo Candide né io né lui. Bisogna provare a dire la verità e non essere manichei: se si può discutere Benedetto Croce, lo si può fare anche con Dalla o De André».

Il suo ultimo disco si intitola Sotto il vulcano. È una metafora?
«Non siamo sotto il vulcano, ci siamo proprio dentro».