Ucraina, patria e fucile, il ritorno dei veterani del Donbass

Ucraina, patria e fucile, il ritorno dei veterani del Donbass
di Cristiano Tinazzi
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Lunedì 14 Febbraio 2022, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 15 Febbraio, 13:21

DNIPRO (UCRAINA) Andrii ha un locale a Dnipro, un pub ristorante, aperto poco prima della pandemia. Si chiama “First Wave”, la prima ondata, e come altri luoghi, dopo sette anni di guerra, ha un richiamo al mondo militare dal quale tanti, seppur tornati alla vita civile, non riescono a staccarsi. Poco dopo l’entrata, un muro è ricoperto da centinaia di toppe di battaglioni di volontari e regolari che nel 2014 hanno preso parte ai combattimenti contro i separatisti filorussi. In mezzo campeggia il tridente ucraino, il Tryzub, collegato alla parola Volya, libertà. Qui il tridente non è disegnato, ma fatto da centinaia di bossoli di proiettile. «Ho combattuto per il mio Paese, come tutti. Era giusto farlo, questa è la mia terra», dice Andrii. Poco prima di partire per il Donbass, per tornare sui luoghi dove ha perso degli amici e dove ha passato mesi lontano da casa, passa a prendere Serghei. Anche lui è un veterano. Si siede in macchina accanto ad Andrii e spesso rimane in silenzio, isolato dal mondo, perso in qualche realtà lontana. Forse quella della guerra. Ha un sacchettino di plastica trasparente dal quale ogni giorno, a intervalli regolari, pesca pillole di forma e colore differente.

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La città

Dnipro è stata una delle città che hanno fornito un importante contributo di uomini e mezzi per combattere gli alleati di Mosca.

Fondata nel 1783 dai russi con il nome di Ekaterinoslav, “la gloria di Caterina”, un omaggio all’imperatrice Caterina II, la città, sotto il regime sovietico, diventa Dnipropetrovsk. Località proibita ai turisti stranieri e alla maggior parte dei russi fino agli anni ‘90, perché centro di ricerca militare e aerospaziale, uno dei centri industriali più grandi del paese, nel 2016 rompe definitivamente con il passato e con Mosca e diventa Dnipro. Qui è nato nel 2017 il museo dell’“Operazione antiterrorismo”, come viene chiamata da Kiyv la guerra in Donbas; da qui centinaia di persone sono partite per combattere. Nel battaglione Dnipro, ad esempio, fondato dall’oligarca Igor Kolomoysky, molti sono gli ebrei, esponenti dell’importante comunità locale, che hanno preso le armi. Molti altri volontari sono anche finiti nel battaglione Azov e nel battaglione Aidar. Tutti uniti dall’odio per Putin. 

Muovendosi verso Est, il panorama diventa un susseguirsi di città minori, insediamenti industriali, campi e villaggi che, avanzando verso il confine, sono sempre più grigi e anonimi. Archeologia industriale, case popolari fatiscenti, montagne fatte di scarti di materiale derivante dall’estrazione del carbone. Ricordi di un periodo nel quale l’industria pesante era il punto intorno al quale ruotavano la vita e la morte di buona parte della popolazione locale. A Sievierodonetsk, ad esempio, uno dei viali principali ha sullo sfondo un’enorme fabbrica con una ciminiera che sbuffa fumo bianco. Intorno, solo palazzine anonime, tutte uguali, tutte scrostate, consunte, cristallizzate agli anni sessanta. Una periferia dimenticata da Kyiv questa, dove le infrastrutture cadono a pezzi, le strade sono malmesse e, per chi ci vive, c’è veramente poco da fare, se non riprodursi, lavorare ammazzarsi di alcol. «Sono persone semplici, molte senza nessuna educazione, quando sono venuto qui come soldato li abbiamo aiutati con cibo e altro, cercavamo di essere gentili, ma la gente non parlava con noi, era diffidente», racconta Andreii. 

I ricordi

Sloviansk o Kramatorsk sono tristemente uguali come ogni altro insediamento di questa regione. Quartieri costruiti intorno a enormi fabbriche che spesso giacciono abbandonate o dismesse. Città fedeli al governo adesso, ma che in passato hanno avuto quinte colonne filorusse e simpatizzanti locali di Mosca. «C’è, soprattutto nelle persone più anziane, una sorta di ricordo aureo del comunismo», racconta un esponente della comunità di Kramatorsk. «Hanno eliminato il ricordo della mancanza di libertà, della repressione, dei gulag, per ricordarsi solo di quando tutti avevano poco, ma qualcosa di garantito dallo Stato». Quando queste città sono state riconquistate dal governo ucraino, i filorussi sono scappati e chi li ha sostenuti ora tace, per non sbilanciarsi. Vige una sorta di neutralità politica in queste zone, dove molti evitano di esprimersi. Fuori da un edificio pubblico, un attempato settantenne in divisa militare e un cappello enorme che ricorda i fasti del militarismo sovietico attende la macchina di Andrii e Serghei. È anche lui un veterano. La bandiera ucraina svetta alta sulla palazzina. In giro non c’è quasi nessuno. 

 

 
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