La scelta di Trump/ Siria, strage Isis, colpiti soldati Usa. Ma il ritiro resta

di Alessandro Orsini
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Giovedì 17 Gennaio 2019, 00:05
Tre soldati americani sono stati uccisi da un kamikaze dell’Isis nella città di Manbij nel nord della Siria. La notizia dell’attacco è motivo di imbarazzo per Trump, rimproverato in queste ore dai suoi oppositori per la decisione di ritirare i soldati da quel Paese martoriato.

La paura di fondo è che in Siria possa verificarsi la stessa situazione che si è verificata in Iraq, dopo che Obama aveva completato il ritiro delle truppe nel dicembre 2011. Senza il sostegno americano, il governo iracheno perdeva ampie porzioni di territorio a vantaggio delle milizie di al Baghdadi. Questo è un argomento in favore degli oppositori di Trump, che tuttavia può sfoggiare una replica vigorosa. Siria e Iraq presentano infatti almeno quattro grandi differenze. La prima è che il ritiro delle truppe americane non lascia affatto la Siria in preda alle milizie dell’Isis. A contrastare i jihadisti vi sono infatti la Russia, l’Iran, le milizie sciite di Hezbollah e lo stesso governo di Bassar al Assad, che si consolida sempre di più con il passare del tempo, a cui bisogna aggiungere i curdi e la Turchia. Ne consegue che i critici di Trump non sono preoccupati da una nuova ascesa dell’Isis, bensì dalla fuoriuscita dalla Siria: Paese in cui vorrebbero rimanere per accrescere la presenza americana in Medio Oriente.

Ben diversa era la situazione dell’Iraq nel 2011, ed è la seconda differenza, dove il governo di Nuri al-Maliki, una volta ultimato il ritiro americano, si ritrovò da solo a fronteggiare l’insurrezione jihadista. La terza differenza è che l’Isis non è più l’Isis. La sua forza propulsiva è crollata. Non controlla più i pozzi di petrolio; il flusso dei foreign fighters è stato prosciugato; i suoi capi sono in fuga e gli attentati in Europa vengono condotti soltanto da lupi solitari sprovveduti e non più da cellule addestrate e numerose come quella che colpì Parigi il 13 novembre 2015. Il fatto che le capacità militari dell’Isis in Europa siano state quasi azzerate ha ridotto il fenomeno dell’effervescenza collettiva che, producendo esaltazione, è causa di mobilitazione. Grandi attentati producono grandi risultati ovvero molti individui radicalizzati.

Infine, il contesto internazionale, che nel 2014 aveva favorito l’ascesa dell’Isis, è mutato. L’Isis aveva beneficiato delle divisioni tra i due blocchi di potenze che si contendevano la Siria. Da una parte, la coalizione guidata dagli Stati Uniti per rovesciare Assad e sostituirlo con un presidente amico; dall’altra, il blocco guidato dalla Russia, schierato in difesa di Assad, infeudato a Putin. I due blocchi, anziché scatenare un’offensiva ad ampio raggio contro l’Isis, temporeggiavano per paura di favorire la coalizione rivale. L’Isis ha beneficiato di questa paralisi reciproca e, nell’attesa, ha prosperato. In conclusione, la tesi di Trump è corretta: le truppe americane non servono più in Siria per combattere contro l’Isis. Il kamikaze che ha ucciso i tre soldati a Manbij non muta questo dato della realtà.

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