Scalata dell'Everest senza gambe, l'impresa di Hari Budha Magar: è il primo alpinista a riuscirci

Ex-militare dei Gurkha, i nepalesi dell'esercito britannico. Ha perso le gambe nel 2010 in Afghanistan, a causa di una mina antiuomo. L'altro ieri è diventato il primo alpinista con queste menomazioni sulla vetta

L'impresa di Hary Magari, scalata dell'Everest senza gambe: è il primo alpinista a riuscirci
di Stefano Ardito
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Sabato 27 Maggio 2023, 06:14

Poche ore fa, due nepalesi reduci dall'Everest sono stati accolti in trionfo a Kathmandu. Uno di loro, Kami Rita Sherpa, ha compiuto l'impresa per 28 volte, sempre insieme a clienti. L'altro, Hari Budha Magar, è un ex-militare dei Gurkha, i nepalesi dell'esercito britannico. Ha perso le gambe nel 2010 in Afghanistan, a causa di una mina antiuomo. L'altro ieri è diventato il primo alpinista con queste menomazioni sulla vetta. «Se un doppio amputato sopra il ginocchio può scalare l'Everest, puoi scalare qualsiasi montagna che affronti, purché tu sia disciplinato, lavori sodo e ci metti tutto», ha detto dopo l'impresa l'ex militare, che sulla strada per la vetta ha esaurito l'ossigeno, per poi essere soccorso dai compagni di cordata.

L'ANNIVERSARIO

Cambiano il vestiario, i respiratori e le radio, ma uomini e donne, sull'Everest, continuano a superare sé stessi. La foto di alpinismo più famosa della storia viene scattata il 29 maggio del 1953. Mostra un uomo in piedi su una vetta, mentre alza verso il cielo una piccozza. La vetta è l'Everest, 8848 metri, il "tetto del mondo". L'uomo è Tenzing Norgay, uno sherpa nato in Nepal e che vive a Darjeeling, in India. Indossa una giacca a vento scura e pantaloni imbottiti, è legato con una corda alla vita. Ha il volto nascosto dal cappuccio, dal respiratore e dagli occhiali da sole.

Ma è felice, e si vede.

A scattare la foto è il neozelandese Edmund Hillary, e una sua immagine sulla vetta non c'è. «Tenzing non aveva una macchina fotografica, spiegargli come usare la mia sarebbe stato complicato», racconterà. Non ci sono radio, nel gruppo, e il Resto della spedizione festeggia il giorno dopo. Poi James Morris, l'inviato del Times, entra nella storia del giornalismo. Scrive un articolo, lo affida a un messaggero che corre fino al primo villaggio dotato di una radio. Il 2 giugno, durante il corteo per l'incoronazione di Elisabetta II, il Times e gli altoparlanti annunciano a tre milioni di persone che l'Union Jack ha sventolato sul "Terzo Polo". L'Impero britannico muore, ma l'Everest è il suo ultimo trionfo. Oggi i telefoni satellitari permettono di connettersi dalle vette, e molti alpinisti postano le loro foto in diretta sui social.

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Da qualche anno il "Tetto del mondo" è diventato caro e affollato. Le spedizioni che si sono appena concluse hanno segnato il record di partecipanti (473 stranieri, accompagnati da 650 Sherpa) e di arrivi in vetta. Metà dei partecipanti ha coronato il suo sogno, 12 persone hanno perso la vita. Gli alpinisti-clienti hanno pagato fino a 160.000 dollari a testa. Il trionfo del 1953 nasce a Londra nei primi anni del Novecento. Gli inglesi, dopo essere stati sconfitti al Polo Nord nel 1909 dall'americano Peary, e tre anni dopo al Polo sud dal norvegese Amundsen, vogliono aggiudicarsi il "Terzo Polo", l'Everest. Sono stati loro a misurarlo a distanza dall'India, e a dargli il nome di un topografo gallese. In quegli anni il Nepal è off-limits, e il Dalai Lama solo nel 1920 dà il permesso per entrare in Tibet. Un anno dopo parte la prima di sette spedizioni, ma nessuna supera gli 8500 metri. Nel dopoguerra la Cina invade il Tibet, il Nepal si apre, nel 1952 gli svizzeri rischiano di soffiare la vetta agli inglesi. Poi, un anno dopo, Hillary e Tenzing arrivano per primi lassù. Sulla via del ritorno, folle enormi li festeggiano a Kathmandu, a Delhi, al Cairo e a Roma. «L'umanità usciva da una guerra terribile, c'era bisogno di una vittoria di pace, hanno celebrato tutti» dirà il capospedizione John Hunt. Negli anni che seguono, come il Monte Bianco o il Cervino, l'Everest diventa una montagna alla moda.

LE VIE NUOVE

Arrivano una ventina di vie nuove, la prima salita senza ossigeno di Reinhold Messner e Peter Habeler, la prima invernale di un team polacco. Dopo i cinesi, che nel 1960 completano la via di salita dal Tibet, compiono grandi imprese americani, jugoslavi, australiani e russi. Poi arrivano i record di Kami Rita Sherpa e di Hari Budha Magar. Anche loro, però, devono faticare e rischiare la pelle. Fino a oggi, a fronte di 12.040 alpinisti che hanno calcato la cima, sono 322 le vittime dell'Everest. Chi arriva per tentare la montagna, o raggiunge a piedi i 5364 metri del campo-base, trova il loro nome su un memoriale accanto alle baite di Pheriche, o su dei chorten, dei cumuli votivi di pietre costruiti accanto al sentiero. Tra i tanti che non sono tornati a valle spiccano gli inglesi George Mallory e Andrew Irvine. L'8 giugno del 1924 i due partono da una tenda a 8170 metri di quota, vengono visti salire dal basso, poi scompaiono e restano per sempre lassù. Forse i primi a toccare la vetta sono stati proprio loro.

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