Biden-von der Leyen, patto anti-Cina sull’export di materie prime e batterie

La presidente della Commissione Ue: «Ora fonti di approvvigionamento sicure. C’è l’impegno comune ad evitare la fuga delle tecnologie più sensibili»

Biden-von der Leyen, patto anti-Cina sull’export di materie prime e batterie
di Gabriele Rosana
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Sabato 11 Marzo 2023, 00:37 - Ultimo aggiornamento: 08:52

I sorrisi di Ursula von der Leyen e Joe Biden alla Casa Bianca indicano che Europa e Stati Uniti ci credono: nella contesa sui sussidi green si può voltare pagina. E, dopo l’auto elettrica, aprire anche a un’alleanza sulle materie prime strategiche, batterie in primis, mettendo così da parte le incomprensioni degli ultimi mesi dopo l’approvazione negli Usa dell’Inflation Reduction Act (Ira), il maxi-piano dal valore di 369 miliardi di dollari a sostegno delle aziende impegnate nella transizione verde. 

IL PIANO

L’obiettivo è concentrarsi sui dossier che richiedono la massima unità transatlantica: la guerra della Russia in Ucraina, certo, con Mosca che «dovrà pagare per le atrocità commesse» e nuove «misure per fermare il sostegno dei Paesi terzi al Cremlino», ma anche e soprattutto la contesa commerciale con la Cina. Pechino è il convitato di pietra nel bilaterale di Washington tra la presidente della Commissione europea e quello degli Stati Uniti: Usa e Ue condividono le «preoccupazioni rispetto al comportamento economico cinese», spiegavano fonti dell’amministrazione americana poco prima del faccia a faccia. Tanto che quello delle materie prime critiche è il tema attorno a cui ruota la dichiarazione finale congiunta: l’impegno è a «cominciare da subito i negoziati su un accordo che equipari» i minerali critici, componentistica chiave per la transizione energetica, che vengono estratti o lavorati nel Vecchio continente a quelli americani, ai fini dell’applicazione dell’Ira e delle sue sovvenzioni, come il credito d’imposta per l’acquisto fino a 7500 dollari per l’acquisto di una e-car. 
Sullo sfondo dell’impegno per «catene di approvvigionamento sicure», c’è la volontà di Bruxelles di ridurre la dipendenza dalle forniture del Dragone e ridurre l’import di componenti tech cinesi, come richiesto con forza da Washington. A definire il perimetro della contropartita, rientra la stretta annunciata quasi in contemporanea dalla tradizionalmente restia Olanda, che adesso limiterà l’esportazione verso la Cina delle apparecchiature altamente tecnologiche necessarie a Pechino per produrre i semiconduttori inseriti poi in auto, smartphone e missili. «Abbiamo un interesse comune nell’impedire che i capitali, le competenze e le conoscenze delle nostre aziende alimentino i progressi tecnologici che miglioreranno le capacità di intelligence e militari dei nostri rivali strategici», si legge nel testo a firma Biden e von der Leyen. No quindi alla «fuga delle tecnologie sensibili».
Oltre alla fumata bianca sulle materie prime - che arriva alla vigilia dell’annuncio, da parte dell’Ue, di un suo provvedimento in merito, il “Critical Raw Materials Act”, in calendario martedì - e all’accordo su acciaio e alluminio sostenibili entro ottobre, von der Leyen ha parlato pure della volontà di avviare un «dialogo trasparente» sui sostegni finanziari a disposizione delle industrie “clean tech” per attenuare al massimo il rischio delocalizzazione delle aziende Ue al di là dell’Atlantico.

Appena due giorni fa l’esecutivo Ue aveva adottato regole più rilassate sugli aiuti di Stato, in modo da dare a ciascun Paese la possibilità di sostenere le proprie industrie nazionali ed eguagliare le offerte in denaro pubblico promesse dagli Usa. Ma l’Ira americano non è di per sé fumo negli occhi degli europei; tutt’altro. «Un così massiccio investimento nelle tecnologie pulite è una cosa molto positiva - ha riconosciuto von der Leyen -. Anche noi vogliamo fare lo stesso con il nostro piano di investimenti. È cruciale lottare insieme contro il cambiamento climatico». Insomma, le batterie made in Europe potrebbero essere salve.

LA SCHIARITA

Le avvisaglie di una schiarita transatlantica potrebbe rappresentare una boccata d’ossigeno per la cinquantina di gigafactory la cui costruzione è stata annunciata in tutta Europa. Italia compresa: il nostro si trova nella top ten dei Paesi Ue più esposti alle grandi manovre politiche sull’industria “clean tech”, dietro Germania e Ungheria e quasi a pari merito con Francia, Spagna e Polonia. Per prenderne contezza basta scorgere i numeri allarmanti messi insieme dall’ultimo rapporto di Transport&Environment (T&E), l’ente no-profit europeo che si occupa di trasporto sostenibile. Nei giorni scorsi, l’organizzazione aveva rilevato come, senza le modifiche ora all’orizzonte, il maxi-piano di Biden metterebbe a rischio delocalizzazione «il 68% della capacità produttiva di batterie agli ioni di litio prevista per i prossimi anni» in Europa. Ciò vorrebbe dire rinunciare «a 1,2 terawattora di batterie europee, in grado di equipaggiare 18 milioni di e-car». Per il nostro Paese, ritardi, ridimensionamento o cancellazione riguarderebbero il 48% della capacità produttiva, con siti per la manifattura di batterie già individuati e prossimi all’apertura pronti, invece, a cedere il passo a nuove fabbriche americane. Ma anche le batterie date in partenza, adesso, potrebbero restare. 

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