Libano, oggi alle urne un Paese in grave crisi finanziaria

Libano, oggi alle urne un Paese in grave crisi finanziaria
di Raffaele Genah
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Domenica 15 Maggio 2022, 00:44 - Ultimo aggiornamento: 00:48

I primi 130mila hanno già votato dall’estero, dove hanno trovato rifugio e lavoro. Un flusso ininterrotto di cittadini che hanno scelto di lasciare il Libano per sottrarsi al caos e alla pesantissima crisi economica che ha fatto precipitare il Paese in uno degli abissi più profondi della sua storia recente. Si calcola che solo negli ultimi due anni se ne siano andati in più di 300mila. Chi ha deciso di restare tornerà alle urne con poche speranze che da domani la situazione possa realmente cambiare. E si teme che possano essere in molti anche a disertare l’appuntamento col voto. «Sono risultati già scritti», osserva qualcuno sconsolato.

Una legge elettorale, calibrata dai partiti al potere sulle proprie esigenze (proporzionale con 15 circoscrizioni cucite a misura), difficilmente consentirà una svolta a cui ormai credono in pochi e che con grande probabilità non porterà con sé un vento reale di novità. Speranze ormai sfiorite, nonostante l’entusiasmo dei giovani, che la rivoluzione dell’ottobre del 2019 aveva alimentato, superando anche le vecchie divisioni in nome del cambiamento e della guerra alla corruzione.

LE QUOTE RELIGIOSE
Il nuovo parlamento, eletto ogni quattro anni, sarà composto da 128 deputati, di cui 64 di religione musulmana e altrettanti cristiani. Tutto qui in Libano si regge su una divisione di incarichi e poteri misurata col bilancino di una legge costituzionale di tipo confessionale che assegna la presidenza dello Stato ad una figura espressa dai cattolici di osservanza maronita, un capo del governo di fede sunnita e un presidente del parlamento sciita. Già questo equilibrio è stato complicato da mantenere soprattutto negli anni più recenti con governi di coalizione di difficile costituzione - l’ultimo è venuto alla luce dopo un vuoto di oltre nove mesi - e che non avevano un disegno politico comune. Il risultato è stata la progressiva paralisi, mentre l’economia strangolava le fasce più deboli. Si calcola che oggi non meno del 75 per cento della popolazione viva al di sotto della soglia di povertà, mentre il rapporto debito/Pil supera il 200 per cento e il 30 percento della forza lavoro è disoccupata (con punte altissime tra i giovani). La lira libanese ha perso oltre il 90 per cento del proprio valore e il salario medio è di un dollaro al giorno.
Le accuse di questo disastro sono generalmente ripartite tra le diverse forze che costituiscono il vecchio e mai tramontato gruppo dirigente. «Questo lo avete causato voi», è lo slogan che tante bombolette di vernice hanno lasciato impresso ben visibile sui muri delle vie e delle piazze.

Ma i più esposti al fuoco delle critiche sono gli sciiti di Hezbollah, a loro vengono attribuite alcune responsabilità ulteriori. La prima quella di essere ormai la “longa manus” degli iraniani sull’intera area, in cerca di uno sbocco sul Mediterraneo.

Dalla Siria, con il sostegno alle truppe del presidente Assad, allo Yemen, con la guerra al fianco degli Houti. E nonostante le ripetute richieste di disarmo, il gruppo guidato da Nasrallah ha continuato negli anni a riempire i propri arsenali. E soprattutto resta un comune sentire, mai definitivamente provato ma sempre respinto dal gruppo sciita, che l’esplosione al porto di Beirut che aveva causato più di 250 morti, seimila feriti e migliaia di senza tetto, sia stato provocato da tonnellate di sostanze chimiche di proprietà di Hezbollah stipate in diversi hangar. L’inchiesta che ha chiamato in causa due ex ministri di un gruppo vicino si è arenata difronte all’ostruzionismo dei dirigenti sciiti.

I SONDAGGI
Nonostante questo però, secondo i sondaggi, il gruppo dovrebbe riconfermare in larga misura i propri seggi e quelli degli alleati. Ma la situazione è difficile anche sugli altri fronti. I sunniti sono divisi tra loro, il leader Hariri dopo aver accettato circa un anno fa l’incarico di formare il governo ha fatto marcia indietro e ha annunciato il ritiro del suo gruppo da questa tornata elettorale. Decisione che potrebbe favorire gli avversari e a cui ha cercato rimedio l’Arabia Saudita, che attraverso il proprio ambasciatore ha provato a mettere insieme altre liste con candidati sunniti. E anche i cristiani hanno le loro divisioni tra i gruppi vicini al presidente maronita Aoun e altri più ostili ad Hezbollah. 

In questo quadro le elezioni di oggi potrebbero avere un peso su i due prossimi appuntamenti istituzionali che il Paese dovrà affrontare nei prossimi mesi: innanzitutto la scelta di un premier che riesca a costituire una maggioranza, possibilmente in tempi rapidi, e la nomina dopo l’estate del nuovo capo dello Stato. La soluzione dei problemi, invece, potrebbe arrivare da fuori. Un Paese stabilizzato è obbiettivo della Francia che ci lavora da mesi, ma anche degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita e di altri attori presenti nello scacchiere mediorientale come la Turchia e l’Egitto.

 

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