Hong Kong, studente italiano fuggito da campus: «Scenario di guerra». Il rettore: ora rischio sostanze chimiche

Hong Kong, rettore Politecnico: «Ancora 100 studenti arroccati nel campus»
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 20 Novembre 2019, 13:21 - Ultimo aggiornamento: 15:30

La sua valigia è ancora dentro il campus della Chinese University di Hong Kong. Matteo Scarpa, 23 anni, studente di Economia dell'Università Liuc di Castellanza (Milano), non sa se la rivedrà mai. È uno dei pochissimi italiani testimoni della resistenza dei manifestanti di Hong Kong alla Chinese University, settimana scorsa. «Abbiamo visto tutto, avevamo paura», racconta oggi all'Adnkronos. Tre giorni di guerriglia pura, che in questi ultimi giorni si è spostata al Politecnico, con una conta di oltre 1.100 arresti dall'inizio della protesta. Venerdì scorso, Matteo è tornato in Italia: due giorni prima, era stato caricato in tutta fretta su un'auto del Consolato italiano, portato lontano dal campus, in un albergo, e poi dritto verso l'aeroporto, da cui è rimpatriato.
 

 


Oltre la rivolta/ L’effetto Hong Kong nella sfida Cina-Usa

«Gli hongkongers si sono sempre comportati benissimo con noi internazionali. Anzi, vedendoci scappare ci hanno fermato per chiederci scusa per quello che stavano facendo, spiegandoci che stavano lottando per la loro libertà». Nei giorni dell'assedio della polizia alla Chinese University, lui era dentro l'università, tra i manifestanti schierati in difesa dell'edificio, e dal tetto dell'International Building, il suo dormitorio, insieme a pochi altri connazionali, ha visto tutto quello che stava succedendo. 

 

Ha visto i feriti e le ambulanze a sirene spiegate che sfrecciavano avanti e indietro all'interno del campus, passando sopra i campi d'atletica e da calcio. Un vero e proprio inferno. «Quando la polizia si ritirava, lo scenario era quello di una guerra, di un campo di battaglia. Marciapiedi distrutti per usarne i mattoni, resti di bottiglie e molotov per terra, caschi e maschere antigas ovunque».

Quando Matteo arriva a Hong Kong il 20 agosto, per un programma di scambio organizzato dall'università, «le proteste erano molto circoscritte e pacifiche, tanto che la Chinese University ci aveva assicurato che non ci sarebbero stati problemi». Nei mesi successivi, la situazione degenera, fino agli scontri nei campus della scorsa settimana. Solo alla Chinese University di studenti ce ne sono 20mila e «protestavano tutti, anche i nostri vicini di camera». All'alba di lunedì scorso, verso le cinque del mattino, cominciano i momenti più tesi. La polizia si presenta davanti al campus: «Dalla nostra stanza abbiamo sentito le urla, ci siamo svegliati e abbiamo visto persone incappucciate e vestite di nero che correvano verso le uscite dell'università e abbiamo capito che la situazione stava precipitando».

Il giorno successivo, martedì, la battaglia vera e propria, con la polizia che usa proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro i manifestanti, barricati per tutto il giorno a difesa del campus con mezzi di fortuna, dalle tavole delle mense alle porte dei campi da calcio. La protesta richiama manifestanti da tutta Hong Kong, che si uniscono agli studenti. Matteo inizia ad avere paura e quel pomeriggio chiama il Consolato per chiedere aiuto e sapere cosa fare. Lo andranno a prendere il giorno dopo per portarlo in salvo. «Dal tetto - racconta - vedevamo il ponte e le strade andare a fuoco. Non siamo mai stati realmente in serio pericolo, ma avevamo paura perché il problema era uscire da lì. Tutte le uscite erano bloccate dai manifestanti e fuori c'era la polizia: ci sentivamo in gabbia».

Mercoledì, durante un momento di tregua, gli studenti internazionali sono stati evacuati con i pullman dell'università. «Nel nostro building c'erano al 90 per cento studenti americani dell'Università della Carolina del Sud. La sera della guerriglia hanno ricevuto una mail che diceva: 'fate presto le valigie, il vostro programma è finito, domani vi riportiamo negli Stati Uniti». Anche Matteo è riuscito a tornare quasi subito, con un suo compagno di studi della Liuc, nonostante il suo passaporto fosse negli uffici governativi cinesi a Sha Tin, un altro quartiere delle proteste. «Ci serviva il visto per andare a Shanghai, avevamo organizzato un viaggio per il weekend successivo». Niente Cina, per ora. Tanto meno Hong Kong.

«L'Università ci ha scritto proprio due giorni fa per sconsigliarci vivamente di tornare a prendere le valigie». Tuttavia, dice lo studente di Economia, «vorrei tornare in futuro. È una città multiculturale, che sa offrire molto, è triste quello che sta succedendo». La verità, aggiunge, «è che i ragazzi protestano per motivi nobili, vogliono la libertà e l'indipendenza dalla Cina. La loro azione dimostrativa è forse l'unico modo che gli è rimasto per lanciare un messaggio visto che la polizia ha cercato di sopprimere le manifestazioni in maniera violenta». Adesso, però, rischiano dieci anni di carcere.

Ci sono ancora 100 irriducibili circa nel campus del Politecnico di Hong Kong: lo ha riferito il rettore Teng Jin-Guang, precisando che circa 20 sono studenti dell'ateneo e che oggi alcuni occupanti hanno deciso di gettare la spugna e di uscire a causa delle condizioni insostenibili. Parlando dopo una breve ispezione al PolyU, Teng ha detto che la situazione all'interno sta diventando pericolosa. «Il campus è nel caos con pericolose sostanze chimiche e lo stato igienico si sta deteriorando: sono condizioni che costituiscono un rischio alla gente nel campus».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA