Il primo ad aprire la porta è stato il New York Times con un editoriale in cui si ipotizza che l’Ucraina possa dover prendere «decisioni difficili» e cioè sacrificare porzioni di territorio per evitare una escalation della guerra. Poi Henry Kissinger ha avanzato la proposta di simili concessioni territoriali, e infine l’ex capo supremo della Nato in Europa, l’ammiraglio James Stavridis ha suggerito che l’Ucraina rinunci a un 10 per cento della propria terra, come fece la Finlandia nel 1939, dopo la guerra contro l’Unione Sovietica, in una situazione molto simile a quella che l’Ucraina sta vivendo oggi contro la Russia. Il tema è al centro del dibattito, a metà strada tra diplomazia e strategia militare. Ne parla anche Aaron David Miller decano della Carnegie Endowment for International Peace, ed ex consulente di presidenti sia democratici che repubblicani.
Dopo interventi di questo calibro pensa che stia montando una nuova corrente?
«Kissinger, Stavridis e il Nyt hanno ragione.
Come può il mondo contribuire a sbloccare la situazione e a portare le due parti a un tavolo?
«Facendo pressioni, sempre e insistenti. Ma non basta l’Occidente»
Allora? La Cina?
«La Cina potrebbe avere un ruolo, se vede che Putin è in difficoltà: di certo non vorrà vedere il suo alleato troppo indebolito».
Lei ha partecipato a tanti negoziati ai massimi livelli, ci può spiegare quali devono essere le condizioni che spingeranno tutte e due le parti a negoziare?
«In diplomazia diciamo che il momento in cui si può proporre il dialogo è quello in cui le due parti combattenti si trovano in uno “stallo doloroso”. Quando cioè il vantaggio di fermare le ostilità è maggiore della sofferenza che queste causano, quando lo status quo diventa intollerabile».
Ci siamo vicini?
«Al momento nessuno dei due combattenti pensa ancora di essere in una situazione intollerabile. Zelensky è sotto la pressione del suo popolo, che ha subito l’incredibile e selvaggia brutalità delle truppe russe, che ha perso tante vite e accumulato tante sofferenze e non vuole fermarsi. Zelensky al momento non ha abbastanza ragioni per giustificare davanti alla sua stessa gente la resa di parte del proprio territorio. Dall’altra parte Putin deve poter giustificare agli occhi del suo popolo questa incompetente invasione, e lo potrebbe fare solo conquistando più territorio di quanto non ne avesse già preso nel 2014, prima dell’invasione del 24 febbraio. E non dimentichiamo Biden: se facesse propria adesso una proposta conciliante verso Putin, apparirebbe debole, sarebbe accusato di appeasement».
C’è una ricetta che possa funzionare?
«Bisogna trovare proposte che diano a entrambe le parti combattenti il modo di dire che hanno vinto. Come ci ha insegnato proprio Kissinger, evitare che uno dei combattenti perda la faccia. Nella diplomazia una volta che si è trovata una proposta valida, bisogna anche saper trovare il momento opportuno e saper incaricare un mediatore che abbia la statura e l’abilità necessaria. Possiamo tutti insieme cercare di spingere le parti, ma dobbiamo restare uniti per avere la forza. Se un Paese agisce indipendentemente non solo fa perdere credibilità e autorevolezza all’alleanza dell’Occidente, ma rischia di creare una situazione anche più pericolosa, un congelamento della guerra, più o meno quello che successe in Corea: una guerra mai finita, con la penisola divisa fra Corea del nord e Corea del sud».
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