Gran Bretagna al voto dilaniata dalla Brexit, May verso l'addio

Gran Bretagna al voto dilaniata dalla Brexit, May verso l'addio
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Mercoledì 22 Maggio 2019, 20:28

Un primo ministro sotto sfratto alla vigilia del voto. Si consumano le ultime ore di Theresa May a Downing Street mentre una Gran Bretagna dilaniata dallo stallo parlamentare sulla Brexit apre domani la tornata delle elezioni Europee del 2019: appuntamento al quale, in tempi di sfide fra sovranisti e non, il Regno non avrebbe neppure dovuto partecipare a rigor di logica, a ben tre anni dal referendum che sulla carta nel giugno 2016 ne aveva suggellato l'addio dall'Ue.

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La corsa per la scelta dei 73 eurodeputati isolani a Strasburgo - tutti sub iudice e destinati a uscire di scena nel momento in cui il divorzio fosse finalmente formalizzato - non appassiona in effetti quasi nessuno oltremanica, dove del resto l'affluenza per questo tipo di consultazione è sempre stata marginale: sotto il 40%. Non solo perché i risultati si sapranno domenica 26, quando voterà il grosso degli altri Paesi. Ma soprattutto per i venti di crisi politica scatenatisi a Londra, e accompagnati per colmo di disgrazia anche dal crac di British Steel, industria dell'acciaio con 5000 dipendenti a rischio. L'estremo tentativo di compromesso della May per provare a riproporre a Westminster entro il 7 giugno la partita della ratifica della Brexit dopo le bocciature a ripetizione e gli inestricabili veti incrociati dei mesi scorsi sembra aver prodotto un plateale effetto boomerang.

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Il testo della legge di attuazione del recesso dal club europeo (Withdrawal Agreement Bill) concepito come uno sforzo di compromesso con le opposizioni ha finito con lo scontentare tutti o quasi. I «10 punti di novità» illustrati ieri dalla premier Tory in pubblico e presentati oggi nella Camera dei Comuni sono stati accolti da un clima a metà fra l'ostilità e il disinteresse in un aula che si è andata in parte svuotando mentre il primo ministro ancora parlava. Concessioni eccessive per una larga porzione di conservatori e non solo tra i falchi brexiteer ribelli, furiosi in particolare per le aperture della premier sulla disponibilità a far votare un nuovo emendamento sull'ipotesi di un referendum bis (seppure con parere contrario del governo).

Concessioni cosmetiche per le opposizioni: con il 'nò immediato del leader laburista Jeremy Corbyn motivato tanto da ragioni di merito, quanto dalla convinzione d'aver a che fare con un'interlocutrice ormai bruciata, incapace di garantire la sopravvivenza di «qualunque intesa di compromesso» sullo sfondo della «sfida alla sua leadership» in casa Tory. Una premier «senza più autorità» che, nel giudizio di Corbyn, dovrebbe passare la mano a elezioni politiche anticipate e che tuttavia per ora non si dimette. Nemmeno di fronte alle congiure di palazzo intrecciatesi nel pomeriggio in seno al suo partito e al suo stesso gabinetto. Rinchiusa a Downing Street, dopo l'intervento a Westmister, May ha resistito per ore, rifiutando di riceverli, all'assedio del viavai annunciato di vari ministri - dal titolare degli Esteri Jeremy Hunt a quello dell'Interno Sajid Javid, a quello della Scozia David Mundell - che avrebbero voluto intimarle la resa o almeno discutere un percorso verso il congedo. Congedo che il voto parlamentare di giugno renderebbe al più tardi obbligato.

Ma che la parrocchia Tory invoca prima.

A spingere in questa direzione sono diversi deputati, riunitisi nel Comitato 1922, organo chiave per l'elezione dei leader conservatori. Ma soprattutto gli aspiranti successori annidati nella compagine governativa. In primis Hunt e la ministra euroscettica dei Rapporti con il Parlamento (Leader of the House), Andrea Leadsom: accreditati oggi quali candidati di una possibile soluzione d'apparato, alternativi (almeno come traghettatori) a una sfida aperta di fronte alla base degli iscritti in cui il netto favorito sarebbe Boris Johnson. Tanto più sullo sfondo dei sondaggi più recenti relativi al voto europeo: segnati nel Regno dal boom del nuovo Brexit Party di Nigel Farage, indicato in testa fra il 30 e il 34% dei consensi, davanti 20-24% del Labour e al 15-19% degli unici europeisti irriducibili in ascesa, i Liberaldemocratici. E con i Conservatori schiantati senza guida al 12%.

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