Festa della donna, dalla pandemia al conflitto in Ucraina: un 8 marzo di resistenza

Proviamo a non lasciare i destini del mondo in mano soltanto agli uomini

L esempio delle donne: un 8 marzo di resistenza
di Maria Latella
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Martedì 8 Marzo 2022, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 9 Marzo, 00:13

L’8 marzo è nato come una giornata di lotta. Quello di oggi cade in una giornata di guerra. Le donne che in Ucraina combattono, chi imbracciando un fucile e chi organizzando la resistenza, chi rifornendo i bunker, raccogliendo medicinali o preparando molotov.

Noi, noi che viviamo in questa parte del mondo in cui la guerra è solo sugli schermi della televisione o sullo smartphone, non avremmo immaginato di ricordare (non voglio dire celebrare) una data come l’8 marzo col pensiero rivolto, una volta di più, alle donne che soffrono.

Una rabbia sottile e confusa si fa strada tra la preoccupazione e l’emozione che suscitano le notizie in arrivo da Kiev: da anni quella che era una festa, la festa delle donne, è diventata, per un caso o per un altro, una rievocazione del dolore, un momento in cui fronteggiare le cose che non vanno.

Ogni anno, negli ultimi almeno, c’è sempre stato un motivo che impediva lo spirito leggero della festa.

Ci sono stati il lockdown e la pandemia, un tempo nel quale molte donne hanno dato più di quanto abbiano ricevuto. Donne medico, infermiere, impegnate con i nostri anziani o semplicemente assorbite nel triplice ruolo di lavoratrici, curatrici della casa e insegnanti di supporto dei figli in Dad. 
Chi ha avuto voglia di festeggiare, e per cosa, negli ultimi 8 marzo?

IL COVID
Prima e dopo la pandemia c’era il pesante martellamento della violenza inflitta alle donne. Quelle inseguite e uccise nel negozio in cui lavorano come parrucchiere, quelle vittime di agguati dai maschi rispetto ai quali non c’è più davvero neppure una residua comprensione: da troppo tempo spieghiamo che ci sono tanti modi e tanti aiuti per liberarsi e guarire dalla rabbia contro l’ex fidanzata che ti ha lasciato. Nessuno può dire oggi: «Non lo sapevo».

E di violenza, troppe volte, è stata lastricata la strada di questi anni. Vicina e lontana. Le infinite umiliazioni inflitte alle donne afghane, per dire: la loro condizione andava di anno in anno peggiorando nell’indifferenza dei più, fin quando poi, con la vittoria dei talebani, tutto è di colpo crollato. E anche lì donne in fuga, almeno quelle che hanno potuto. Donne recluse, quelle che sono rimaste.

Ripenso alla leggerezza dell’8 marzo di cinque o sei anni fa, quando tutto il dibattito si concentrava sull’essere la festa ormai un evento puramente commerciale. E c’era chi, tra noi, un po’ si dispiaceva temendo che tutto si riducesse a una sera in pizzeria con le amiche oppure, per carità, a ridere in qualche locale dello strip tease di qualche maschio muscoloso.

A ripensarci, viene quasi nostalgia. Nostalgia per quell’età che potremmo definire dell’innocenza, quando per le donne si intravvedevano magnifiche sorti e progressive, con ostacoli da superare sì, ma anche con tante risate.
Come si fa a dirci «buon 8 marzo» oggi, pensando a quelle sorelle, sì, non saprei come chiamarle altrimenti, in coda per prendere un treno o un pullman e fuggire così dal proprio Paese in guerra, col cuore che batte perché fino all’ultimo non sanno se quel treno (o quel pullman) partirà senza di loro.

IL DNA
Le donne, si dice, non sono educate alla guerra. Non è nel loro Dna. Poi però, quando la guerra arriva, la affrontano con lo stesso coraggio che mettono nella vita di tutti i giorni, quando il coraggio è richiesto per andare avanti con pochi soldi o con una malattia.
Le donne non sono educate alla guerra, è vero. Ma allora toglietevi di mezzo, voi che alla guerra siete educati. Voi che ancora ci credete. 

Toglietevi di mezzo e lasciate che ai destini del mondo per un po’ ci pensino le donne. Non è detto che vada meglio, ma fin quando non ci si prova non potremo saperlo. 
Vedi mai che ci scappi finalmente, e di nuovo, un otto marzo in cui festeggiare qualcosa.

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