Addio a George H. W. Bush, il presidente dell’ottimismo

di Alessandro Orsini
3 Minuti di Lettura
Domenica 2 Dicembre 2018, 00:12
George H. W. Bush, presidente Usa dal 1989 al 1993, è morto a 94 anni. Vincente in politica estera, perdente in politica interna. È raro trovare una figura politica che consenta di pronunciare un giudizio così contrastante. La sua incapacità di esprimere vicinanza ai problemi domestici degli americani gli costò il secondo mandato. Sconfitto da Bill Clinton, fu una sorta di umiliazione negli Usa, dove il presidente in carica gode di un grande vantaggio su qualunque sfidante. Impressionò la rapidità con cui vide crollare la propria popolarità.

Poco prima della guerra del Golfo contro Saddam, avviata il 17 gennaio 1991, aveva raggiunto uno strabiliante 90% dei consensi, precipitati al 30% l’estate prima delle elezioni del ‘93. A congiurare contro di lui fu la crisi economica del ‘92, gli americani ricordano la differenza tra il distacco emotivo della sua reazione e il coinvolgimento di Clinton. In politica estera, i successi furono numerosi. Pigiò sul muro di Berlino fino al crollo e sospinse la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Firmò un importante trattato per la riduzione delle armi con Gorbacev, noto come “Start 1”, con cui Russia e Stati Uniti nel 1991 si proibirono di predisporre circa 6000 testate nucleari. È stato il più grande trattato della storia per il controllo delle armi offensive, la cui implementazione finale nel 2001 ha consentito di rimuovere l’80% delle armi nucleari strategiche esistenti all’epoca. Fu proposto da Reagan, firmato da Bush e rinnovato da Obama, l’8 aprile 2010 a Praga. Dà l’idea della continuità della politica americana sulle questioni vitali della politica internazionale, che Trump sta mettendo in discussione. 

È una prima discontinuità tra Bush e Trump, il quale è un presidente diverso che vive in un’epoca diversa. Due diversità che, sommandosi, fanno una grande differenza. Entrambi repubblicani, il primo è stato maggiormente favorito dalle circostanze internazionali. Le crisi più gravi che ha dovuto gestire si sono sviluppate mentre la Russia era cedevole e lontano dai suoi domini. Bush rimosse il dittatore Manuel Noriega, dopo avere invaso Panama con 28 mila soldati nel 1989. 

Le crisi più urgenti per Trump sono in Siria, infeudata a Putin, Afghanistan, Ucraina, Libia, Yemen, Corea del Nord e nel Mar Cinese Meridionale. In quasi tutti i teatri di guerra Trump trova Putin dietro l’angolo, a differenza di Bush che camminava a braccetto con Gorbacev e poi con Eltsin. Comparare due presidenti, senza considerare il contesto in cui sono stati eletti, richiede cautela. Ecco perché occorre richiamare almeno un altro elemento di distinzione: negli anni di Bush gli americani non erano così spaventati dalla crescita di un colosso come la Cina. Bush visse un tempo di ottimismo, che sprigionò la tesi della “fine della storia”, per citare il libro di Francis Fukuyama, non a caso americano, pubblicato nel 1992.

Tanti americani credettero che la storia avrebbe segnato l’estensione indefinita della loro democrazia, mentre oggi faticano a contenere l’avanzata della Cina illiberale. Per non parlare del pessimismo diffuso dal fallimento delle primavere arabe. Molti Paesi, che hanno avuto la possibilità di assomigliare agli Stati Uniti, sono rimasti autoritari. E poi la crisi economica del 2007, che ha rischiato di scrivere la fine della storia. Quella degli Stati Uniti però, come potenza egemone. Bush era figlio dell’ottimismo; Trump del pessimismo. Al primo, i voti della speranza nella vittoria; al secondo, quelli della paura della sconfitta. Tutto questo non elimina le differenze antropologiche tra i due. Bush incarnava un modo di essere repubblicano altamente istituzionale, spazzato via da Trump, non a caso in contrasto con John McCain, che rappresentava l’anima antica di quel partito, proprio come Bush. Non è un caso nemmeno che molti repubblicani abbiano abbandonato Trump, ritenendolo estraneo alla storia del loro partito. 
aorsini@luiss.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA