Brexit, bocciati anche i piani b: no a uscite soft e al referendum bis

Brexit, bocciati anche i piani b: no a uscite soft e al referendum bis
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Lunedì 1 Aprile 2019, 23:30 - Ultimo aggiornamento: 26 Febbraio, 22:50

​Brexit, bocciati anche i piani b: no a uscite soft e al referendum bis. Non si sblocca lo stallo sulla Brexit: la Camera dei Comuni ha infatti bocciato di nuovo le 4 opzioni di piano B alternative all'accordo di divorzio raggiunto dalla premier Theresa May con Bruxelles, dopo il precedente nulla di fatto della settimana scorsa. Una maggioranza non è emersa né sulle due ipotesi di Brexit più soft (con permanenza del Regno nell'unione doganale l'una, in un cosiddetto 'mercato unico 2.0' l'altra), né in favore d'un secondo referendum, né di una revoca dell'articolo 50 come alternativa a un no deal.

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Niente maggioranza trasversale in Parlamento sulle alternative al pluri-bocciato accordo sulla Brexit di Theresa May e spettro di un divorzio no deal sempre più vicino per il Regno Unito. Il Parlamento di Westminster ha fallito stasera per la seconda volta in pochi giorni la sfida al governo alla ricerca del compromesso perduto, sullo sfondo di una partita a tempo ormai quasi scaduto, avvolta dalle nebbie d'un caos politico e istituzionale che non si dirada e segnata dall'impazienza sempre più irritata dell'Ue e del business.

L'ultimo appello del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, non ammetteva equivoci. «Una sfinge è un libro aperto a paragone del Parlamento britannico», era sbottato l'ex primo ministro lussemburghese da Saarbruecken, notando come mancassero appena una decina di giorni alla scadenza anche del rinvio concesso dai 27 a Londra fino al 12 aprile. E invocando uno straccio di sì a una proposta purchessia. Un sì che i deputati di Westminster non sono stati tuttavia in grado di esprimere sulle loro 4 opzioni superstiti di piano B, dopo il nulla di fatto della settimana passata, in un intrico di ostruzionismi e veti incrociati.

Le mozioni in pole position favorevoli a una Brexit più soft - sostenute dall'intera opposizione laburista e da una fetta significativa di Tory moderati - sono rimaste sotto le aspettative: la prima, che mirava a lasciare Londra nell'unione doganale a costo di rinunciare a futuribili accordi di libero scambio autonomi con Paesi terzi come quello che l'amministrazione Usa di Donald Trump continua almeno a parole a offrire, si è fermata a soli 3 voti della maggioranza (273 contro 276), ma comunque sotto. La seconda, che raccomandava l'uscita dall'Ue, ma non dal mercato unico, ha fatto peggio (meno 21) tanto da indurre il suo promotore, il deputato conservatore dissidente Nick Boles, ad annunciare l'addio al partito della May.

Niente da fare nemmeno per le altre due proposte, che puntavano a un vero e proprio rovesciamento del risultato referendario del 2016: la prima (appoggiata pure dal leader del Labour, Jeremy Corbyn, ma non da alcune decine di deputati laburisti eletti in collegi pro Brexit), in favore di un secondo referendum, ha avuto un buon numero di sì (280), ma anche di no (292), con uno scarto negativo di 12 seggi; mentre l'ultima, che reclamava al Parlamento addirittura la potestà di revocare con un singolo voto di maggioranza l'artico 50 e di congelare la Brexit sine die come alternativa al no deal, è stata battuta nettamente con 101 voti di gap. Ora è proprio il no deal - epilogo di default nel caso in cui una qualunque intesa non ricevesse l'approvazione formale, come ha ricordato all'aula dopo il flop il ministro per la Brexit, Stephen Barclay - il traguardo più probabile. Un traguardo auspicato a gran voce dai brexiteer, divenuti di fatto maggioranza nel gruppo Tory come testimoniato dalla lettera firmata da oltre 170 deputati in cui si chiede a Theresa May che la Gran Bretagna esca a questo punto dall'Ue il 12 aprile «con o senza accordo». E che la premier non sembra escludere più del tutto, ma spera ancora di aggirare aggrappandosi alla speranza di strappare mercoledì prossimo un quarto voto sul proprio accordo, come rilanciato da Barclay stasera.

Magari in ballottaggio con il piano B sull'unione doganale, stando alla controproposta di Corbyn. E in ogni caso con in mano la spada della minaccia delle temute elezioni anticipate. Il governo, del resto, appare troppo diviso anche per ordire una congiura immediata contro la premier. Come dimostra la guerra aperta fra alcuni ministri e notabili, dal titolare della Giustizia, David Gauke, al chief whip Julian Smith, orientati oramai pubblicamente ad accettare una Brexit morbida se non altro per ragioni di «aritmetica parlamentare»; e altri colleghi (a partire dal vecchio euroscettico Liam Fox) pronti a gridare al «tradimento» e a ipotizzare dimissioni di massa. Mentre alla City e nel mondo economico l'allarme si tinge di panico, ma anche di collera. Con la compagnia aerea EasyJet che crolla in borsa per le incertezze dei prossimi mesi; le scorte degli importatori che si moltiplicano; e Juergen Maier, ceo di Siemens Uk, che sollecita un soprassalto di realismo a un Paese - sferza - divenuto «lo zimbello» d'Europa.

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