Boris Johnson è il nuovo premier: Brexit il 31 ottobre ad ogni costo

Boris Johnson è il nuovo premier: Brexit il 31 ottobre ad ogni costo
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Mercoledì 24 Luglio 2019, 18:28 - Ultimo aggiornamento: 21:43

Boris Johnson promette di «prendere personalmente la responsabilità» di una svolta nel Regno Unito, sulla Brexit e non solo, in un discorso di esordio nei panni di premier all'ingresso di Downing Street improntato all'ottimismo e ai toni di un nuovo volontarismo, ma senza troppi dettagli. La priorità dell'uscita dall'Ue il 31 ottobre è confermata, con parole di grande fiducia sulla possibilità di raggiungere un nuovo accordo e accantonare il backstop sul confine aperto irlandese.

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Ma anche con l'accenno a poter scaricare su Bruxelles l'eventuale responsabilità del «remoto» epilogo di un no deal. Toni analoghi sul resto dell'agenda. Johnson s'impegna a «servire il popolo», evoca a volo d'uccello «strade più sicure», un fiorire di «fantastiche infrastrutture», una politica economica pro business, ma anche attenzione alla cura sociale, all'istruzione, alla sanità. Rende poi omaggio alla «fortezza» di Theresa May, ma aggiunge che «dopo 3 anni di mancanza di fiducia è tempo di cambiare spartito», di mostrare una nuova «ambizione». «Non sottovalutate questo Paese», avverte.


La Gran Bretagna uscirà dall'Ue il 31 ottobre «senza se e senza ma». Lo ha assicurato nuovamente Boris Johnson nel suo primo discorso da capo del governo britannico. «Avremo un nuovo accordo, un miglior accordo... basato sul libero commercio», ha assicurato, dicendosi certo di poter trovare un nuovo accordo con Bruxelles. Tuttavia Johnson ha aggiunto che il suo paese si deve preparare per «la remota possibilità che Bruxelles si rifiuti di negoziare» e si arrivi quindi a una Brexit senza accordo.
 


Il nuovo governo
Una squadra di brexiteer e giovani leoni della nuova destra Tory. È il ritratto d'insieme del governo britannico guidato da Boris Johnson, seppure non senza qualche eccezione. Un governo quasi totalmente terremotato rispetto alla compagine di Theresa May, con una quindicina di ministri uscenti di spicco scaricati. Ecco i nomi chiave destinati ad affiancare il neo premier nella sfida per portare a termine la Brexit in 99 giorni, entro il 31 ottobre.

DOMINIC RAAB: 45 anni, avvocato dai modi vellutati, ma dalle idee radicali, è un brexiteer senza compromessi. Non immune da qualche gaffe, è stato ministro per la Brexit nel secondo governo May dopo le dimissioni del veterano David Davis, ma si è poi dimesso l'anno scorso contestando la linea giudicata troppo soft della ex premier. Diventa ministro degli Esteri e Primo segretario di Stato, un onore che nessuno ricopriva nel precedente gabinetto e che gli conferisce il rango di numero 2.

SAJID JAVID: 49 anni, figlio d'immigrati pachistani fattosi largo nel business e poi nell'establishment conservatore, è stato ministro dell'Industria con David Cameron, e ministro dell'Interno dal pugno di ferro nell'ultima fase della stagione May. Ora viene promosso a capo del Tesoro e delle Finanze del Regno come cancelliere dello Scacchiere, primo esponente di una minoranza etnica su questa poltrona, al posto del più moderato Philip Hammond. Pro Remain pentito, negli ultimi anni si è affiancato alle posizioni dei brexiteer sui rapporti con l'Ue. 

MICHAEL GOVE: 51 anni, veterano del governo e grande tessitore di trame fra i Tories, è stato al fianco di Johnson nella campagna referendaria pro Brexit del 2016, ma poi lo ha tradito. Ora il binomio si ricompone con la nomina di Gove - già ministro dell'Istruzione e della Giustizia con David Cameron, e dell'Ambiente con Theresa May - a cancelliere del Ducato di Lancaster; ruolo di coordinamento del gabinetto finora in mano al filo-Ue David Lidington, vicepremier di fatto della May.  

PRITI PATEL: 47 anni, di origini familiari indiane, è una delle figure più radicali e controverse del Partito Conservatore di oggi, nota fra l'altro per il suo sostegno inflessibile alla Brexit, a Israele e per i legami con il mondo del business, incluse le industrie del tabacco e degli alcolici. Era stata ministra del Commercio Estero nel primo governo May, salvo essere costretta a dimettersi per aver incontrato vertici politici e d'affari israeliani durante una vacanza nello Stato ebraico all'oscuro di Downing Street e dell'ambasciata britannica (ma non di quella israeliana a Londra). Ora diventa ministro dell'Interno, a capo dell'Home Office.

BEN WALLACE: 49 anni, ex militare, già viceministro della Sicurezza Nazionale, è un fedelissimo di Johnson, al suo fianco fin dall'inizio nella corsa per la leadership Tory. Sostituisce a sorpresa al dicastero della Difesa Penny Mordaunt, prima donna ministro in questo ambito nel Regno e in carica da pochi mesi, anche lei brexiteer, ma sostenitrice di Jeremy Hunt come leader.  

STEPHEN BARCLAY: 47 anni, avvocato d'affari, è uno dei pochi ministri confermati. Brexiteer, aveva dato il suo endorsement a Johnson e resta alla guida del dicastero della Brexit per garantire continuità al dossier dei negoziati con Bruxelles.

L'uscita di scena di Theresa May
Lacrime di commozione, ma anche lacrime di coccodrillo. Theresa May, primo ministro mai davvero amata e raramente capace di empatia, chiude così, in un clima di emozione solo in parte sincero alla Camera dei Comuni, i suoi tre anni a Downing Street. Almeno con qualche riconoscimento dell'11esima ora al suo lavoro. Un lavoro segnato dalla fallita realizzazione di una Brexit concordata, oltre che da una eredità di governo controversa, di cui tuttavia lei non rinuncia a rivendicare alcuni risultati, sull'occupazione e non solo. L'ultimo giorno da premier segue i riti codificati. Un Question Time d'addio in Parlamento, il pranzo con lo staff a Downing Street - in giardino, in una Londra assolata -, il discorso di congedo. Infine le dimissioni nelle mani della regina per fare spazio al successore Boris Johnson. Essere diventata la seconda premier donna dopo Margaret Thatcher nel Paese che definisce «delle aspirazioni e delle opportunità» è stato «l'onore più grande», dice nel messaggio conclusivo di fronte al numero 10 col solo marito Philip - «pilastro della mia vita» - al suo fianco. Non senza «un grazie» ecumenico al popolo britannico e al palazzo, e l'augurio di «ogni successo a Boris».

Il vero atto conclusivo della sua premiership si consuma però nel Question Time settimanale. Un appuntamento che porta a oltre 4500 le risposte di lady Theresa da premier alle interrogazioni dei parlamentari, come lei stessa ricorda sorridendo con puntigliosa contabilità. E pone termine ai 21 anni da lei trascorsi sui banchi del governo. Il finale di partita è chiuso dalla standing ovation compatta del gruppo Tory, inclusi molti protagonisti del suo siluramento interno apostrofati come «ipocriti» da qualche collega d'altri partiti. E anche da quella di alcuni deputati di opposizione. Comunque non manca, a tratti, l'omaggio spesso negatole in passato: soprattutto da diverse onorevoli donne, anche laburiste o liberaldemocratiche, che le accreditano in particolare l'impegno di governo sulla legge contro le violenze domestiche o contro le nuove schiavitù. Col leader dell'opposizione Jeremy Corbyn i toni sono invece più accesi (e forse meno ipocriti).

Corbyn le rimprovera i passi indietro sul fronte delle diseguaglianze sociali e le chiede di condannare «i piani sconsiderati» di Boris Johnson verso una possibile Brexit no deal, mentre torna a invocare elezioni anticipate.
Lei lo contesta su tutta la linea, gli dice «vergogna» per non aver votato l'accordo di divorzio dall'Ue e gli suggerisce di valutare pure lui le dimissioni. Ma alla fine un tributo reciproco arriva, se non altro sul piano personale. May riconosce a Corbyn «la devozione» verso i suoi elettori; Corbyn alla premier uscente «il senso del dovere pubblico». Un motivo, fosse solo uno, per il quale la legnosa e robotica 'Maybot' potrebbe essere infine rimpianta da molti.

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