Battisti, altri 12 latitanti chiesti alla Francia, Parigi resiste. Salvini: «Li convinceremo»

Battisti, altri 12 latitanti chiesti alla Francia, Parigi resiste. Salvini: «Li convinceremo»
di Cristiana Mangani e Francesca Pierantozzi
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Mercoledì 16 Gennaio 2019, 08:08 - Ultimo aggiornamento: 17:59

Ventisette in tutto, dei quali 12 solo in Francia. È questo il dato ufficiale che arriva dal Dipartimento di Pubblica sicurezza. Ne sono scappati a centinaia tra terroristi neri e rossi, negli anni di piombo, una cinquantina sono rimasti nella lista dei ricercati per moltissimi anni. Alcuni hanno scelto i paesi del centro e sud americani, Brasile, Nicaragua e Perù. Altri il Giappone e la Gran Bretagna. Ora, dopo la cattura di Cesare Battisti, il numero di chi ancora avrebbe da scontare anni di carcere si è dimezzato. E su di loro le intenzioni del Governo sembrano chiare: «Riportarne indietro quanti più possibile». Ma tra il dire e il fare ci sono le varie condizioni imposte dagli stati che li ospitano. Molti hanno la cittadinanza, alcuni sono diventati imprenditori di un certo rilievo, e difficilmente verranno ceduti all'Italia. Obiettivo, quindi, è puntare sulla Francia. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini sembra convinto che questa volta le cose andranno diversamente. E infatti dice: «Sarà più che un appello, saremo convincenti. Se qualcuno protegge i terroristi, siano rossi, siano neri o bianchi, fa il piacere di restituirli all'Italia. Otterremo la galera per gli assassini che se la godono altrove».
Proprio in queste ore, infatti, il Viminale sta lavorando alla nuova documentazione che verrà consegnata alla Francia. Dossier e informazioni aggiornate che saranno trasmesse a breve.

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IL DOSSIER
«Le richieste di estradizione che riceveremo nei prossimi giorni dalle autorità italiane, saranno oggetto di analisi approfondite, caso per caso, come accade da una quindicina di anni», è la replica indiretta del ministero della Giustizia francese. L'arresto di Battisti ha riaperto un dossier che ciclicamente torna sul tavolo delle diplomazie franco-italiane. Delle diplomazie e non dei giudici o della polizia: i casi ancora aperti sono tutti legati a fatti accaduti prima del 1993, non rientrano quindi nelle norme del mandato d'arresto europeo, ma in quelle dell'estradizione classica.

Le decisioni sono dunque prevalentemente politiche. Per questo fonti legali tradizionalmente vicine ai rifugiati italiani fanno sapere che «quarant'anni dopo dovrebbe valere la prescrizione morale. Queste persone hanno tutti documenti francesi, hanno un'altra vita. Sono casi chiusi». Per i diretti interessati, non si tratta più di giustizia ma di «vendetta». Anche perché - dicono - c'è chi aperto un ristorante, come Maurizio di Marzio, chi fa il traduttore e insegna l'italiano come Giovanni Alimonti, c'è chi ha lavorato per una casa editrice di fumetti ed è stato per anni rappresentante dei genitori a scuola, come Roberta Cappelli, chi è stato già graziato (da Nicolas Sarkozy) per motivi di salute, come Marina Petrella. Insomma, la battaglia italiana parte in salita. I francesi, infatti, non sembrano essere d'accordo nemmeno sul numero delle persone che andrebbero rimpatriate. «Non c'è alcuna lista», affermano.
Negli anni Ottanta se ne contarono anche 400, erano gli anni in cui la Dottrina Mitterrand sembrava intoccabile, la parola d'onore di un paese che apriva le porte a chi scappava prima di tutto da una fase storica chiusa e non da una condanna. Nel 2002, con il mandato europeo entrato in vigore, Berlusconi e Chirac ai vertici, ci fu la svolta: Paolo Persichetti venne riconsegnato all'Italia. Anche allora venne fuori una lista: comprendeva settanta nomi. Nel tempo si sono ridotti: le prescrizioni, i decessi, e poi quelli che sono tornati spontaneamente.

DAL MITRA AL MESTOLO
Diversa la questione per chi ha scelto paesi molto più lontani. L'Italia ha più volte tentato di riavere indietro Alessio Casimirri, il brigatista che faceva parte del commando che ha sequestrato Aldo Moro e ucciso gli uomini della scorta. «Nel 1993 eravamo a un passo dal farlo rientrare in Italia - racconta Carlo Parolisi, agente del Sisde, ora in pensione - Poi un maledetto scoop giornalistico ha fatto saltare tutto». Condannato a sei ergastoli, Casimirri non ha mai passato un giorno in cella e da 37 anni vive in Nicaragua, dove ha moglie e figli oltre che una fiorente attività da ristoratore. Talmente fiorente che nella capitale, a Managua, il suo locale Gastronomia El Buzo (Il sub) ha guadagnato il primo posto nella classifica di Trip advisor. Viene indicato per l'ottimo pesce, e lo chef è proprio Casimirri.
Se ci si sposta di paese, in Brasile, si trova un altro terrorista che ho scelto di esibirsi in cucina: Luciano Pessina, esponente di punta di Prima linea, condannato a 12 anni e 4 mesi per reati che comprendono rapina, furto e detenzione illegale di armi. «I miei reati sono stati prescritti - dice - L'Italia ha chiesto la mia estradizione ma il Brasile l'ha negata e la cosa è finita lì». A Rio, ha preferito il mestolo al mitra. Oltre 20 anni fa ha aperto un ristorante, Osteria all'angolo, che ha chiuso i battenti l'anno scorso. Ma solo perché l'attività si è spostata a Copacabana, con Pasta&Vino, un piccolo negozio dove viene venduta pasta fatta in casa. Perché in Italia, Pessina si guarda bene dal tornare, ma sui prodotti del suo paese ci guadagna, eccome.
 

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