Stella Jean, la stilista di origini haitiane prende posizione: «I nuovi italiani invisibili per la moda»

Stella Jean, la stilista di origini haitiane prende posizione: «I nuovi italiani invisibili per la moda»
di Veronica Timperi
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Venerdì 21 Agosto 2020, 08:16

«Nei momenti di crisi i saggi costruiscono ponti, mentre i folli creano barriere». Sono le parole di un proverbio nigeriano scelto da Stella Jean per la sua pagina Instagram. La stilista italo-haitiana classe 1979, vincitrice nel 2011 di Who's on Next, unica nera a far parte della Camera della Moda Italia e attivista del Black Lives Matter Italia declinato anche in chiave fashion, in questi giorni ha puntato il dito sulla mancanza di inclusività nella moda italiana, invitando a una rivoluzione culturale. La stilista non ha ancora deciso se parteciperà alla fashion week milanese di fine settembre, comunque ha intenzione di lanciare un forte messaggio.

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Quando nasce il suo sostegno al movimento Black Lives Matter Italia?
«Ho deciso di prendere posizione a gennaio, quando si è registrato un aumento degli episodi di matrice razziale anche da noi e lo stesso Ministro dell'Interno Luciana Lamorgese dichiarò che l'Italia si trova in uno stato di emergenza culturale. È anche una mia responsabilità spiegare a chi non se ne fosse accorto la situazione di marginalizzazione estrema che vive la minoranza a cui appartengo, un'intera generazione di nuovi italiani alle prese con l'indifferenza a km 0».
Alla manifestazione romana del movimento per i diritti sociali dei neri lo scorso giugno ha parlato con un megafono a Piazza del Popolo. Che sensazione ha avuto?
«Mi sono emozionata. C'era un'intera generazione di nuovi italiani invisibili, di tutte le possibili diverse sfumature di colore, al fianco di italiani bianchi. Tutti chiedevano di essere visti, ascoltati e rispettati».
In Italia lei è la sola stilista nera entrata nell'olimpo della moda e nella fashion week meneghina, ha mai subito discriminazioni o pregiudizi?
«Assolutamente no. Ho iniziato questo percorso grazie alla generosità di due grandi della moda italiana quali Franca Sozzani e Giorgio Armani, e non ho mai subito discriminazioni. In sette anni di collaborazione la Camera della Moda ha sempre dimostrato un grande supporto al lavoro sulla multiculturalità che svolgo con le donne artigiane dei Paesi in via di sviluppo».
Si aspettava la risposta data dal presidente Carlo Capasa che ha giustificato l'assenza di persone di colore sia dalla Camera della moda che dalla Milano fashion week dicendo che questa omogeneità bianca riflette il Paese e che il razzismo è un problema che riguarda il Parlamento?
«A dire il vero mi ha lasciata di stucco. Anche perché per fare il nostro appello, con Edward Buchanan (designer arrivato in Italia per lavorare da Bottega Veneta, ndr.) abbiamo usato le sue stesse parole e le sue stesse promesse, tanto enfatizzate nel Manifesto della diversità ed inclusione del 2019. Si prometteva che si sarebbero denunciati i fatti senza paura e che si sarebbe dato voce agli ultimi e agli oppressi. Non avrei mai immaginato una tale incoerenza tra parole e reazioni».
Cosa dovrebbe e potrebbe fare di più il sistema moda italiano per sostenere e far emergere anche talenti di altre etnie?
«In primis ascoltare. Non nascondersi ulteriormente dietro scuse e che riflettono solo una resistenza culturale ad una attualità imperante. L'Italia è un faro culturale per il mondo da sempre, non può in questo campo specifico dimostrare una tale arretratezza. I maggiori brand italiani attraverso le passerelle e le campagne pubblicitarie riempite oggi più che mai con modelle e modelli neri, continuano a raccontare al mondo una storia e un immaginario che non riflette la realtà. Dietro le quinte la realtà dei fatti è estremamente diversa».
Il suo stile ha da sempre una connotazione molto esotica: pensa che in qualche modo, visto il clima odierno poco tollerante, possa essere penalizzante?
«La mia moda continuerà a raccontare la mia storia personale, fatta di multiculturalità in cui il fattore determinante rimarrà sempre la componente artigianale del made in Italy. Attraverso il mio lavoro intendo dare voce alle realtà dei Paesi in via di sviluppo, cosi come intendo fare tutto il possibile perché le nostre tradizioni centenarie non si estinguano sotto la scure del fast fashion».
Come ha trascorso il lockdown?
«Lavorando. Ho chiesto a tutte le mie artigiane in Italia di non fermarsi, di provare a dare un senso a qualcosa che un senso non aveva. E tutte hanno accettato. Abbiamo dato così vita ad una piccolissima collezione, Spes contra Spem, realizzata dalle artigiane di Umbria, Abruzzo e Lazio, con materiali e colori che avevamo a disposizione a km 0, nei nostri archivi e nelle botteghe. La creatività si è occupata di moltiplicarli».
Durante la quarantena imperversava il refrain ne usciremo migliori. Sarà così anche nella moda?
«Condivido e apprezzo una riflessione del Fashion editor canadese Tim Blanks, che sottolinea, in seguito alla quarantena, la necessità della moda di parlare apertamente e sinceramente. Nonostante le mirabolanti campagne pubblicitarie e l'enfasi investita sui termini più alla moda del ventunesimo secolo - sostenibilità ed inclusione - tutto è invece insostenibile ed esclusivo. È ora di trasformare una poco sana competizione in una costruttiva collaborazione, di mettersi le mascherine, ma anche di calare la maschera».

 

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