La sociologa Graziella Priulla: «Nel web parole tossiche e insulti sessisti: si è aperta la pattumiera del risentimento»

Graziella Priulla
di Valentina Venturi
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Lunedì 28 Settembre 2020, 17:21 - Ultimo aggiornamento: 17:24

«Noi siamo le parole che usiamo, la lingua ci fa dire le parole cui la società l’ha abituata. Può essere usata per rispettare o per disumanizzare, per stimolare comportamenti civili o incivili. Di questi ultimi tutti, prima o poi, paghiamo il prezzo». Parole come pietre, parole violente che sui social restano e spesso influiscono sulle identità fragili di chi le subisce. Di questo e di molto altro tratta la sociologa Graziella Priulla che insegna all’Università di Catania nel Dipartimento di scienze politiche e sociali, nel suo ultimo libro "Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo" edito Settenove. 

Cosa sono le parole tossiche?
«Stiamo molto attenti all’alimentazione dei bambini, temendo che i cibi cattivi intossichino il loro stomaco; lo stesso facciamo per preservare i loro polmoni dall’aria inquinata; ci preoccupiamo molto meno del loro cervello, che viene continuamente intossicato da un linguaggio trucido, violento, offensivo, che si è diffuso senza riprovazione sociale. Da antimodello scandaloso, da fuga trasgressiva ed eccezionale verso una dimensione carnale del linguaggio, il parlar sboccato si è trasformato in abitudine quotidiana e in canone ufficiale, penetrando nella pubblicità, nei media, perfino nei luoghi istituzionali della politica. La volgarità attira e instaura una vicinanza perché parla direttamente alla parte del cervello che gestisce le emozioni più primitive e le pulsioni più elementari».
 
Cos'è volgare? 
«L’idea di volgarità si associa all’esibizione di qualcosa che andrebbe tenuto riservato. Quali questioni private, esposte in pubblico, ingenerano l’effetto di volgarità? I rapporti erotici tra le persone; le propensioni, le pratiche e i gusti sessuali; i temi attinenti l’aspetto fisico, la salute, l’intelligenza, il livello della famiglia, il successo nel lavoro, le capacità sessuali, le funzioni fisiologiche, i propri meriti a confronto con gli altrui demeriti; l’esibizione di nudità non giustificata da nessuna necessità (per esempio artistica o scientifica), l’uso sprezzante o strumentale del corpo umano e in specie femminile. Ovviamente il grado di volgarità cresce con l’espandersi della platea cui questi temi vengono esposti».

E con pudore?
«Intendiamo qualcosa di contrario ed opposto alla pruderie, con cui è solitamente confuso. In materia sessuale - il più discusso ma non il solo degli ambiti possibili - il pudore non va confuso con la censura moraleggiante, con i centimetri di pelle esposti o con il numero di rapporti: è piuttosto domanda di un più raffinato processo di simbolizzazione degli sguardi, di contro alla sguaiataggine e al ciarpame del voyeurismo e dell’esibizionismo».
 
Come si degenera dal turpiloquio alla violenza?
«Esiste un rapporto circolare per cui parola, pensiero e comportamento si rafforzano a vicenda: è molto probabile che chi parla male pensi male e viva male. Si inizia di solito attaccando la vittima con commenti di discredito e disprezzo del suo aspetto, per arrivare al post sessista che aggredisce solo e specificatamente per il genere e raggiungere infine la meta della minaccia a sfondo sessuale, con auguri di stupri e violenze fisiche di vario tipo». 
 
La pratica del dissenso come si mette in pratica?
«Il contrario di assuefazione è ‘reazione’. Mentre ci abituiamo all’uso feroce del linguaggio il nostro palato si fa più insensibile, la nostra soglia di disagio si abbassa. Alla fine, sopporteremo di tutto. Il rimedio non sta nel galateo, e tantomeno nella censura: ci vorrebbe l’addestramento a un consapevole impiego della parola come portatrice di significati e costruttrice di relazioni, a partire dalla famiglia e dalla scuola». 
 
In epoca di social media cosa significa “ragionare sulle parole”?
«In nome del “Rinascimento del web” si è aperta una specie di pattumiera del risentimento. Gli utenti della rete si esprimono molto spesso con un registro aggressivo che sta diventando lo stile della nostra società: è ormai accettato o considerato “normale” da quasi la metà degli utenti, secondo una ricerca SWG. Non è un caso se l’edizione 2018 del dizionario Zingarelli ha incluso tra i nuovi termini d’uso hater, odiatore. Nei social però arriva, magari amplificato, ciò che è già presente nella società e in questo senso essi mandano segnali che è necessario cogliere».
 
Come mai, nonostante la rivoluzione femminista, gli insulti sessisti non sono spariti?
«Gli insulti sessisti avrebbero dovuto sparire, perdere potenzialità offensiva; invece sono ancora lì, come i pregiudizi che li mantengono in vita. Siamo cambiati e siamo cambiate ma non più di tanto; anzi negli ultimi anni siamo tornati/e indietro, con una involuzione di cultura e di riconoscimento di diritti».
 
Perché al centro degli insulti sessisti c’è l’attrazione o l'odio per le donne?
«La volontà di denigrare una categoria, e in questo caso più della metà del genere umano, passa per i linguaggi e i comportamenti quotidiani. Nel complesso di discorsi che ha costruito la nostra storia la donna è apparsa sempre come un’entità da tenere a bada con le buone o con le cattive e soprattutto come una creatura di tale imperfezione da rappresentare un pericolo costante».

Perché contro le donne gli insulti sessuali sono sempre pronti?
«In questo modo si (ri) mettono al posto più basso della catena di potere, si ribadisce che, anche se la modernità talvolta si deve piegare ad annetterle in luoghi diversi dalla cucina e dalla camera da letto, sempre lì dovrebbero stare, come pretendono millenni di cultura patriarcale. Non si tratta solo di non picchiare e non stuprare. La cultura machista che alimenta e sostiene la violenza contro le donne è fatta anche di tutta una lunga serie di doppi sensi, risate, scherzi, commenti pesanti, luoghi comuni pruriginosi che affollano le conversazioni». 
 
Nel testo precisa: “Le parole del sesso sono dei jolly linguistici”. Come mai?
«Il sesso è una delle zone più misteriose e perturbanti del nostro essere, luogo di conflitti profondi, di turbamenti e di paure; la pulsione sessuale è stata collocata dalle religioni monoteiste tra i bisogni bassi, tra le forze malvage e predatorie presenti nell’uomo: intrattiene quindi con il peccato un rapporto di particolare vicinanza e per questo è associata al fascino e al timore, come ogni trasgressione e ogni tabù».
 
Il termine “femminicidio” ha sempre una valenza?
«Il termine - ormai riconosciuto dal diritto e dalla criminologia, pur se contestato da alcune frange - introduce un’ottica di genere su crimini prima ritenuti “neutri” e così facendo ne rende visibile la matrice strutturale».
 
Da quando finalmente si usa?
«In Italia ha avuto un utilizzo massiccio a partire dal 2008, è attestato in Devoto-Oli 2009, in Zingarelli a partire dal 2010 e nel Vocabolario Treccani online; è riconosciuto dall’Accademia della Crusca e definisce "qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l'identità attraverso l'assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte". Dal luglio 2019 è in vigore nel codice penale il c.d. “Codice rosso”, una misura speciale che stabilisce una serie di norme contro il femminicidio e ogni altra violenza nei confronti delle donne».
 
La donna ha degli strumenti per riappropriarsi della sua identità linguistica?
«Non è una questione per sole donne: è una condizione fondamentale per dar vita per tutti a una società libera dall’oppressione. Sono innumerevoli le iniziative di contrasto agli stereotipi sessisti e alla violenza verbale ad opera di scuole, università, associazioni, movimenti. Dar loro maggior voce e rappresentazione in modo integrato tra tutte le agenzie sociali è un lavoro concreto, un’azione propositiva che anche il mondo dell’informazione si può intestare».
 

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