Lorenzo Gasparrini: «Io, filosofo femminista, vi dimostro che il nostro linguaggio è sessista e non lo sappiamo»

Lorenzo Gasparrini
di Valentina Venturi
4 Minuti di Lettura
Lunedì 8 Giugno 2020, 10:46 - Ultimo aggiornamento: 17:27

«Sono un filosofo femminista, ma ho difficoltà a farla passare come definizione. È banale dirlo ma è quello che succede da noi, mentre in altri Paesi non dà nessuno problema». Lorenzo Gasparrini ha uno stile chiaro e punta dritto al tema da affrontare. Lo fa sia quando viene intervistato, che quando scrive libri come “Non sono sessista, ma…” pubblicato dalla casa editrice Tlon e che come sottotitolo riporta la precisazione: “Il sessismo nel linguaggio contemporaneo”.
 
Come mai questo titolo?
«Per cercare una frase che spiegasse o cercasse di dire velocemente cosa è il sessismo».
 
Lo spieghi lei.
«Il sessismo è una cosa della quale tantissime e tantissimi non si rendono conto e spesso iniziano la frase proprio con “Io non sono sessista ma..” e dicono una cosa sessista».
 
A suo avviso perché?
«Non ci si rende conto di quanti condizionamenti riguardo la nostra identità di genere abbiamo subito e trasmettiamo con i nostri gesti, con il linguaggio, rendendoli "normali". Ma non lo sono, sono sessisti».
 
Per esempio?
«Quante volte abbiamo detto, pensando di fare un complimento a una donna, che “ha le palle”? Quante volte pensiamo che sia una bella cosa da dire che “le donne non si toccano nemmeno con un fiore”? Quante volte non ci rendiamo conto che la stragrande maggioranza degli insulti e dei proverbi della nostra lingua colpiscono il corpo delle donne, le loro abitudini, quello che si pensa essere la cultura delle donne? Gli esempi sono sterminati».
 
Da dove nasce l’errore?
«Dal non ammettere di essere condizionati nella costruzione della propria identità di genere, perché non ci si rende conto di quanto certe assunzioni, che sembrerebbero innocue o prive di conseguenze, ne hanno molte e non sono per niente innocue».
 
Per esempio?
«Moltissimi uomini sono ancora conviti che se una donna va in un certo locale vestita in un certo modo da sola o con un'amica, significhi una sua disponibilità sessuale. Oppure se una donna sul posto di lavoro si veste in un certo modo è perché ha ottenuto o vuole ottenere delle cose, secondo un certo costume sessuale che poi sarebbe tenuta a praticare. E poi si arriva a situazioni molto gravi come la vittimizzazione: la vittima di stupro se l’è voluta o cercata».
 
Serve nel 2020 il femminismo?
«Eccome! Io mi sforzo di usare il plurale. Una cosa che si racconta male del femminismo è di farlo apparire come una cosa unica, una dottrina con dei comandamenti, invece è un movimento culturale molto antico e vario. Tanti femminismi tra loro sono anche incompatibili, litigano e litigheranno sempre. È una ricchezza dalla quale attingere, non è un monolite».
 
Lei è sposato. Ha fatto il galante, sbagliando, quando la corteggiava?
«Come no!».
 
Come ha riparato all’errore?
«Si cerca di chiedere scusa o si chiarisce il fatto che avresti dovuto chiedere se il comportamento era gradito o no. Perché sia chiaro niente è vietato o impossibile: basta chiedere il consenso. Ma non si fa. Anzi, agli uomini è stato insegnato che è indice di debolezza. A furia di sottintesi non ci dimentichiamo che quello della violenza di genere è un iceberg».
 
Cosa c’è sotto?
«La montagna, fatta dal fischio per strada o dall’apprezzamento che dà fastidio che sono diritti che qualcuno si arroga di parlare del corpo altrui perché secondo lui c’è il diritto a farlo, mentre non c’è affatto».

Da cosa deriva?
«Sono condizionamenti che impari da piccolissimo. Chi studia i fenomeni del linguaggio dell’educazione ai bambini si accorge che gli stereotipi di genere arrivano con una precisione e infallibilità già a 5 anni. Ci si chiede da dove vengano? Ma c’è tutto un mondo che glieli racconta e loro imparano».

Quando?
«La divisione domestica dei ruoli è immediatamente presente nei bambini, mentre invece dovrebbe esser discussa e soprattutto sottolineato quanto è irreale: sin dai libri di scuola imparano che la mamma sta in casa e cucina e papà va a lavorare quando da tempo non è più la realtà».
 
La soluzione?
«L’educazione. Dobbiamo escludere qualunque componente genetica o biologica: noi impariamo i comportamenti verso gli altri generi. E li impariamo purtroppo non solo da mamma e papà, ma da un intero mondo culturale che ci racconta in che modo essere uomini o donne». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA