Sara Reggiani, editrice e traduttrice: «L'autorevolezza femminile si misura ancora dall’aspetto esteriore»

Sara Reggiani
di Valentina Venturi
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Sabato 24 Ottobre 2020, 16:23

Da donna a donna, da scrittrice a traduttrice. Tra Ellen Meloy - una delle più importanti scrittrici naturaliste americane - e Sara Reggiani si è creato un ponte emozionale e linguistico grazie a “Antropologia del turchese”, volume pubblicato dalla casa editrice Black Coffee (specializzata in letteratura nordamericana) con la prima traduzione italiana curata da Reggiani. Con “Antropologia del turchese” Meloy è stata finalista al Premio Pulitzer nel 2003, un anno prima di venire a mancare. Per riuscire a tradurre il romanzo, una vera e propria esperienza sensoriale scatenata dalla natura, Reggiani si è trasferita lì dove sono nate le parole di Meloy.

Cosa crede abbia lasciato Ellen Meloy al mondo della letteratura?

«Come lei in tanti hanno scritto e scrivono di natura, ma forse Ellen ha il merito di aver saputo descrivere con onestà, senza fronzoli, e soprattutto ironia (giuro che alcuni passaggi sono davvero esilaranti) l’impotenza del linguaggio di fronte all’esperienza sensoriale».

Pensa che le donne abbiano una marcia in più rispetto agli uomini nella traduzione? 

«No, esistono solo incontri più o meno felici. Non penso, ad esempio, che le traduttrici dovrebbero tradurre solo donne e i traduttori solo uomini. L’identificazione autore-traduttore è quanto di più nocivo possa accadere. In traduzione contano solo il rispetto e la conoscenza della materia. E di questo sono capaci tanto gli uomini quanto le donne. Certo, nel Novecento sono stati più che altro uomini a tradurre i grandi della letteratura, ma l’approccio oggi è fortunatamente diverso».

L’editoria in Italia è “accogliente” verso le donne?

«Posso soltanto dire che nella mia esperienza non ho trovato ostacoli, né come traduttrice – prima di fondare “Black Coffee” con mio marito ho lavorato per molti anni come traduttrice free lance – né come editrice. Non ho mai avuto l’impressione di essere discriminata. Ho dovuto lottare e dimostrare di aver diritto a un posto in questo mondo come i miei colleghi maschi. Il discorso cambia un po’, però, in situazioni che richiedono la mia presenza fisica».

In che senso?

«Ho quarant’anni suonati ma non li dimostro, sono una donna di piccola statura, con un atteggiamento molto informale e accogliente, e spesso ho notato, alle fiere ad esempio, che spesso i lettori si avvicinavano allo stand di Black Coffee, mi sorridevano, e poi si rivolgevano a mio marito Leonardo (Taiuti, ndr.). Di certo il mio aspetto influisce sulla percezione che gli altri hanno di me, risvegliando pregiudizi. È sempre molto divertente osservare la sorpresa sui loro volti quando Leonardo mi indica e dice “il capo è lei”. Ma insomma non è un problema, mi spiace solamente che ancora l’autorevolezza si misuri dall’aspetto esteriore, tutto qui. Non ho di certo intenzione di cambiare, alzerò semplicemente la voce».

Come nasce l’idea di dare vita alla casa editrice Black Coffe?

«Ho fondato Black Coffee insieme a Leonardo perché dopo anni di frequentazione del Nord America e di traduzione letteraria, sentivo di aver qualcosa da dire rispetto a certe realtà molto spesso trascurate. Volevo la libertà di proporre autori e autrici a mio avviso promettenti, senza addossare ad altri la responsabilità di un eventuale fallimento. Volevo rischiare da sola.

Che significa che si preoccupa di dare voce alle voci femminili?

«Il fatto che dia molto spazio alle scrittrici, spesso molto giovani, deriva dalla semplice constatazione che attualmente in Nord America le voci femminili sono le più interessanti, quelle che più velocemente riescono a elaborare e a dar conto di una realtà in continuo mutamento».

La definirebbe una discriminazione?

«No, pubblico anche libri di scrittori, la mia è semplicemente una forma di attenzione che mi sembra dovuta e necessaria. Di buono nell’essere un piccolo editore c’è questo, che puoi concederti di illuminare gli angoli lasciati bui, per scelta o convenienza, dalla grande editoria».

Come è stato tradurne “Antropologia del turchese”?

«È stata l’impresa più impegnativa della mia carriera di traduttrice finora: leggo molta saggistica ma traduco soprattutto narrativa, e questo testo è uno strano ibrido. Alterna passi di grande lirismo ad altri infarciti di nozioni scientifiche molto specifiche dell’area geografica descritta, quella dei deserti del Sudovest degli Stati Uniti. Quando ho letto Antropologia del turchese per la prima volta ho capito subito che per tradurlo avrei dovuto usare la massima concentrazione e precisione, e allo stesso tempo “sentire” quello che scrivevo ai fini di riprodurlo nella mia lingua in maniera tale da attivare tutti i sensi del lettore».

Come è arrivata a conoscere la famiglia di Meloy?

«Prima di tradurre ho pensato che avrei dovuto “provarle” certe sensazioni, per saperle riprodurre in italiano. Così, quando il fratello di Ellen mi ha proposto di andare a trovare Mark – il marito di Ellen – in Utah, non ho esitato. Dovevo vedere con i miei occhi i colori del deserto, le sue piante, i suoi animali, dovevo lasciarmi bruciare da quel sole, sentire la voce di Ellen».

Fin nello Utah per comprendere il testo?

«Non si può tradurre la vertigine che dà affacciarsi su un paesaggio lunare come quello della terra dei canyon, ma si può provare a viverla fino in fondo senza cercare appigli. Da un’esperienza autentica scaturiscono parole autentiche. Al mio ritorno in Italia continuavo a non conoscere la traduzione di certi termini, ma finalmente sapevo cosa aveva provato Ellen, e le parole venivano da sole».

Quando ha contattato il fratello di Meloy e il marito Mark?

«È stato lui a contattarmi per offrirmi il suo aiuto in assenza della sorella, e ancora lui a permettermi di incontrare Mark, un uomo imponente, dall’animo generoso, ma anche riservato, a tratti imperscrutabile. Insieme abbiamo trascorso una settimana a Bluff, minuscolo paese dello Utah sudorientale, lo scorso ottobre. In quell’arco di tempo Grant e Mark mi hanno accompagnato con pazienza nell’esplorazione del mondo descritto da Ellen. Grant parla italiano e si sforzava di venirmi incontro quando mi mancavano le parole. Di giorno esploravamo i canyon o discendevamo il fiume San Juan, e la sera ci accampavamo in mezzo al deserto e guardavamo le stelle raccontandoci di noi. Dal mio rientro in Italia sono trascorsi molti mesi prima che la traduzione fosse pronta. Ed è arrivata l’epidemia. Mark e Grant hanno continuato a starmi vicino e, quando finalmente ho ultimato la traduzione, si sono stretti intorno a me insieme a familiari e amici».

Un’esperienza importante?

«Come racconto nella prefazione, tradurre "Antropologia del turchese" è stata una delle esperienze più belle e intense della mia vita, un inizio, una rivelazione, perché mentre lavoravo sulle parole di Ellen trovavo me stessa, e le nostre voci si fondevano».

Ha ricevuto delle reazioni sulla traduzione?

«Pochi giorni fa, durante una riunione del comitato dell’Ellen Meloy Fund for Desert Writers, Grant ha letto in italiano uno stralcio della mia traduzione e ha detto che mentre leggeva a un certo punto ha avuto l’impressione che fosse Ellen a parlare, non più lui, né io. Ecco, a un traduttore non serve altro per capire di aver fatto un buon lavoro».

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