Il velo islamico, tra prigione e libertà: in un libro le voci delle donne musulmane

Tiziana Ciavardini
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Martedì 21 Luglio 2020, 17:44
Il velo come prigione, simbolo della libertà negata. Il velo come identità, libera scelta da rivendicare. Difficile per noi capire quelle donne musulmane che dicono di indossarlo con orgoglio. Così come trattenere ogni giudizio di fronte alle immagini di Silvia Romano che scende dall'aereo, dopo un sequestro lungo un anno e mezzo, convertita e velata. Un invito alla riflessione viene dal libro «Hijab. Il velo e la libertà», scritto da Giorgia Butera (presidente di Mete Onlus, della Comunità Internazionale Sono bambina, non una sposa e dell'Osservatorio Internazionale Diritti Umani e Ricerca) e Tiziana Ciavardini (antropologa culturale, scrittrice e ricercatrice alll'Università Cinese di Hong Kong) e appena pubblicato da Castelvecchi, con la prefazione della senatrice Emma Bonino. Le autrici vanno contro il pregiudizio culturale che vede nella donna con indosso l’hijab una donna sottomessa e al tempo stesso portano avanti anche la battaglia delle donne iraniane e di tutte quelle che lottano contro i soprusi e il velo come imposizione. 



EMMA BONINO
«É tanto difficile per la nostra cultura accettare che una donna possa 'liberamentè decidere di convertirsi all'islam e indossare un velo islamico?», scrive nella prefazione Emma Bonino. «Fortunatamente oggi sono pochi i Paesi in cui il velo integrale è obbligatorio come in Yemen e in Afghanistan. Personalmente sono totalmente contraria a qualunque tipo di velo integrale perché tutti devono essere riconoscibili nei luoghi pubblici, ma come noto ci sono diversi tipi di velo». Anche lei, racconta, ha dovuto indossarlo in alcune occasioni. «In Afghanistan - dice - dove ho vissuto per circa sei mesi, portavo sempre una specie di foulard con le stelline dell'Europa a viso scoperto e questo mi ha fatto spesso pensare alle tradizioni della nostra Italia; mi tornava il ricordo di mia nonna che non usciva mai di casa senza guanti e cappello». In Iran, invece, le fu «imposto» appena aperta la porta dell'aereo. «Sbagliamo - avverte - se pensiamo che questi regimi non tengano conto di quello che avviene a livello internazionale; molti di loro, come l'Iran, pongono molta attenzione alle pressioni internazionali relative alla difesa dei Diritti Umani. Per questo - esorta - è molto importante continuare a lottare e suggerire a questi Paesi la strada giusta accompagnandoli verso maggiori aperture in processo di cambiamento a favore della libertà della donna e di tutti gli esseri in generale»


L'ESPERIENZA IN IRAN
Una delle autrici, Tiziana Ciavardini, ha vissuto a lungo in Iran ed è stata più volte minacciata per il suo lavoro d’inchiesta sulle condizioni delle donne, e per aver difeso Nasrin Sotoudeh, l’avvocatessa iraniana condannata a 148 frustate e 38 anni di reclusione per aver provato a difendere i diritti delle donne che volevano protestare contro l’uso obbligatorio del velo. 
«Ho sempre rispettato le leggi iraniane che obbligano le donne all’utilizzo del velo islamico in tutti i luoghi pubblici, l’ho indossato per oltre 10 anni ed ho sempre pensato che fosse una grande ingiustizia. Ho conosciuto donne che non si riconoscono in quello ‘stupido cencio medioevale’ cosí come lo aveva definito Oriana Fallaci nella sua storica intervista all’ayatollah Komeini. Nello stesso tempo ho conosciuto donne che credono fermamente in quel velo e che sono orgogliose di avere il capo velato in quanto per loro simbolo di corrispondenza della fede che professano».


«L’obiettivo/invito che da queste pagine desidera uscire - si legge nell'introduzione - è quello della libera scelta, cercando di capire le ragioni di ciascuna donna, di colei che con orgoglio indossa il velo, o chi lo ritiene una prigione. Abbiamo il dovere di stigmatizzare ogni pregiudizio culturale che vede la donna con indosso l’hijab, una donna sottomessa. Desideriamo portare avanti la battaglia delle donne iraniane, e di tutte quelle che lottano contro i soprusi e l’obbligo del velo. Il nostro obiettivo è quello di essere la voce di quelle donne che non ne hanno, e divulgare il più possibile le condanne inflitte a coloro che hanno “osato” protestare contro l’imposizione del velo»
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