"Unorthodox", la serie tv su una storia di liberazione: Esty e le donne che non possono cantare e mostrare i capelli

"Unorthodox", la serie tv su una storia di liberazione: Esty e le donne che non possono cantare e mostrare i capelli
di Maria Lombardi
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Martedì 21 Aprile 2020, 11:31 - Ultimo aggiornamento: 22 Aprile, 10:02

Esty ha bei capelli, lunghi e ondulati. Deve tagliarli, nessuno può vederli. Ha una bella voce ma nessuno può sentirla. Le donne della sua comunità fanno così.  Esty non è libera di amare, di cantare in pubblico, di studiare e lavorare, di scegliere come vestirsi o cosa fare della sua vita. L’hanno educata ad obbedire e nascondersi, a trattare gli uomini come re anche se lei non sarà mai regina. Nemmeno la mamma e il marito sanno che la sua voce tocca l’anima e fa piangere, non l’hanno mai sentita cantare. Alle donne della sua comunità è proibito. Esty vive a New York, ma potrebbe essere l’Iran come l’Afghanistan tanto piccolo chiuso antico e tiranno è il suo mondo. Non c’è niente di più lontano dall’America e da New York di Williamsburg, a Brooklyn, il quartiere della comunità di ebrei ultra-ortodossi del movimento chassidico Satmar, dove la diciannovenne vive. La sua storia di sottomissione e ribellione dura quattro puntate: Esty è la protagonista della mini serie-tv di Netflix, “Unorthodox” che ci porta tra famiglie che seguono alla lettera i precetti del Talmud, la religione è in ogni angolo di queste case, ispira ogni gesto e condiziona ogni scelta. Alle donne viene chiesto solo di fare figli. Se non sei madre, non sei nulla. Il corpo non serve ad altro: umiliato in abiti troppo larghi che fanno sembrare tutte senza forme, congelato nei desideri, destinato ad altri. Una donna non può desiderare o essere desiderata, non ci si spoglia nemmeno a letto.



Scritta da Anna Winger e Alexa Karolinski, ispirata all’autobiografia di Deborah Feldman, “Unorthodox” - tra le serie più apprezzate del momento, sia da pubblico che da critica - è il racconto di una fuga. Esty Shapiro (l’intensa Shira Haas) sembra vivere in un’altra epoca, in un mondo parallelo, tutto è superato intorno a lei dai mobili, ai vestiti goffi (le donne devono apparire umili e modeste), alle parrucche brutte, non sia mai che qualcuno pensi siano capelli veri, quelli non ci sono più. Il perimetro di questo micro-universo fuori tempo è la lingua, si parla yiddish. Si prega insieme intorno a un tavolo, quand’è Shabbat, gli uomini con in testa lo Shtreimel, il copricapo dal bordo largo, le donne con la parrucca e un fazzoletto bianco, dopo il matrimonio i capelli vengono rasati e nascosti. Esty si ribella al matrimonio combinato, al sesso che è solo dolore, all’oppressione della famiglia. Scappa a Berlino (la città simbolo della persecuzione per la sua gente diventa per lei la libertà) si toglie la parrucca e si mette i jeans. E canta in pubblico, in yiddish, davanti alla madre ritrovata, al marito che non vuole più, mostra i capelli, fa sentire la sua voce. Scopre che può diventare madre, che non c’è niente di sbagliato o di malato in lei, come le famiglie di Williamsburg volevano farle credere.


«Il mio film sulle spose in Mauritania costrette a ingrassare. Ma anche noi umiliamo i nostri corpi»






La liberazione di Esty,  tra lacrime, dubbi e perdono, è raccontata (con stile asciutto ed essenziale, senza giudizi) dal suo corpo. Sono i dolori, quelli sulla pelle, a rendere insopportabile quell'infelicità. Così come è il corpo di Verida a ribellarsi nel film di Michela Occhipinti «Flesh out - Il corpo della sposa» (presentato nel 2019 al festival di Berlino)  tutt’altro paese tradizioni e religione, ma identica è l’umiliazione delle donne. Verida, una giovane mauritana, è condannata come tutte le promesse spose a prendere peso prima del matrimonio. Dieci pasti al giorno, questo impone il “gavage”, una tradizione che sopravvive ancora nella capitale Nouakchott e soprattutto nei villaggi. L’agiatezza della famiglia si misura con il peso della sposa, arrivare a quel giorno magre è segno di miseria. Verida obbedisce, come hanno fatto sua madre e sua nonna, impossibile sottrarsi senza essere punite. Ma poi non ce la fa, troppo grande è il disgusto del cibo, Verida alla fine si ribella e si libera, dal velo  e dall'immagine che le viene imposta.

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