Quattro generazioni di donne che si tramandono l'arte della tessitura: «Ma i nostri saperi sono a rischio»

Marta Cucchia
di Vanna Ugolini
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Giovedì 15 Agosto 2019, 09:35 - Ultimo aggiornamento: 21:30

Oramai sono alla quarta generazione. Quattro generazioni di donne che si tramandono l'arte della tessitura, l'amore per questo lavoro, la sapienza delle mani, lo stupore ogni volta che i fili che incrociano diventano una straordinaria tovaglia da tavola damascata. 
Al lavoro, adesso, in una suggestiva chiesa del 1200 nel centro storico di Perugia che è sia museo sia laboratorio c'è Marta Cucchia. «Abbiamo sette telai a jacquart ottocenteschi e tre telai a pedali, di cui uno originale del 700». Sono arrivati lì dopo tanto viaggiare nel tempo e fra le mani della mamma, della nonna e della bisnonna, Giuditta Brozzetti, a cui è intitolato il laboratorio perchè è stata proprio lei a cominciare a tessere quel filo lungo ormai un secolo. 

Giuditta Brozzetti, in realtà, era una maestra elementare che divenne direttrice delle scuole elementari di Perugia quando gli uomini partirono per la prima guerra mondiale. Per poter fare al meglio il suo lavoro viaggiava e si rese conto che da tante case proveniva lo stesso rumore. Erano i telai, erano le donne che si ingegnavano a lavorare in casa e che avevano una clientela di alto lignaggio: chiedeva loro non solo corredi ben ricamati ma anche i segni della straordinaria pittura umbra. E le donne avevano imparato a riprodurre gli affreschi dei pittori che in Umbria hanno lasciato veri e propri capolavori: Giotto, Simone Martini, il Perugino.

«Queste donne utilizzavano una tecnica di tessitura medievale: una tecnica così riconosciuta e con radici antichissime. Basta pensare che anche la tovaglia dell'Ultima cena di Leonardo riprende i motivi dei tessuti umbri. La mia bisnonna si innamorò di questo lavoro che era artigianato e arte allo stesso tempo». Così, una volta tornati gli uomini dal fronte, Giuditta Brozzetti pensò di diventare imprenditrice. «Aprì un proprio laboratorio, che diventò un vero e proprio luogo di produzione ma anche di autonomia per le donne che vi lavoravano. Per prima cosa la mia bisnonna volle che le donne aprissero un libretto postale a loro intestato in modo da non versare gli stipendi agli uomini. Queste donne erano quasi tutte contadine e raramente monetizzavano il loro lavoro. Stiamo parlando degli anni '20, avere una autonomia economica era una vera e propria rivoluzione. L'emancipazione passò anche attraverso questi laboratori».

Passano gli anni. «Alla mia bisnonna subentra mia nonna ma arriva anche la seconda guerra mondiale che stronca la rinascita di queste arti minori. Furono fermate le esportazioni negli Stati Uniti, dove noi avevamo moltissimi clienti. Riducemmo la produzione al territorio nazionale. Così mia nonna Eleonora decise di diversificare il prodotto: allargammo la produzione alla moda. Nonna Eleonora creò una linea di abbigliamento, sfilammo alla settimana della moda di Milano, partecipammo alla Fiera campionaria di Milano. Insomma, sembrava che questa strada fosse quella giusta». Ma, c'è un altro ma nella storia di queste donne indomabili e infaticabili.
«Ci eravamo specializzate nella produzione di damaschi in Mohair ma negli anni '70, con la crisi del canale di Suez il costo delle materie prime diventò insostenibile». L'azienda passa alla mamma di Marta, Clara, che deve inventarsi qualcosa di nuovo. «Mia mamma riparte dalla storia della nostra azienda. Si è rimessa a cercare gli antichi decori che venivano realizzati e l'origine di questa grande tradizione».

«Ora ci sono io. Mi chiamo Marta, sono la prima tessitrice di famiglia  e ho realizzato il sogno di mia madre di riportare nella chiesa di San Francesco delle Donne, una chiesa del 1200, la passione della nostra famiglia. Ho smontato dal vecchio laboratorio i telai, li ho portati qui e ho creato un museo-laboratorio».
Una tessitrice-imprenditrice che continua a sognare e a progettare, con i piedi ben saldi nella storia della famiglia. «La nostra missione è conservare la produzione tessile. Siamo attivi e produciamo ancora. Ma mia madre aveva 35 dipendenti. Noi, ora, siamo in tre. Io sono l'unica italiana. Con me lavora una ragazza francese e un peruviano».

Che differenza c'è tra una tovaglia prodotta da un telaio industriale e una che esce, invece, da un telaio del '700? «Innanzi tutto la tridimensionalità e la consistenza. Il telaio meccanico schiaccia le trame, noi lanciamo il filo a uno a uno, mano. Per fare una tovaglia ci metto un mese, quaranta giorni. Una famiglia si passa una nostra tovaglia per tre-quattro generazioni. Riproduciamo fedelmente gli antichi damaschi perugini, affreschi e disegni. Chi sceglie una delle nostre tovaglie sceglie la narrazione di una storia».
Anche Marta, però, si trova la strada in salita, come accadde alle altre donne della sua famiglia. Questa volta non sono i grandi sconvolgimenti della storia ma le modalità di tassazione imposte.
«Credo che questo tipo di lavoro esalti anche le capacità artigianali per cui l'Italia si è sempre distinta nella storia, la sapienza del fare con le mani. Purtroppo stiamo perdendo anche questa memoria e credo che non si possa costruire un futuro senza memoria».
Per questo tipo di produzioni resistere è difficilissimo: «Io sono tassata come se fossi una piccola impresa, come chi ha i telai elettrici. Sono pochi i laboratori di questo tipo che ce la possono fare. Eppure noi siamo qui anche a tramandare i saperi che ci arrivano direttamente dal Medioevo. Tessiamo non solo fili ma la storia del nostro paese, facendola rivivere ogni giorno». Nella speranza che quel filo che Giuditta prese un mano un secolo fa non si interrompa mai.

 

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