La scrittrice Giulia Caminito: «Io, ipocondriaca, mi sono procurata 5 infarti. Alle donne oggi è chiesto di non essere deboli»»

Giulia Caminito
di Valentina Venturi
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Mercoledì 1 Luglio 2020, 20:57 - Ultimo aggiornamento: 21:24
«L'ipocondria è una malattia e non fa ridere». Giulia Caminito è una giovane scrittrice di successo, che ha deciso di palesare la sua fragilità e di raccontare la sua malattia, l’ipocondria. Ne ha scritto durante la quarantena sulla rivista letteratemagazine.it, ne parla a Popsophia e lo fa in questa intervista: «Ho avuto degli episodi che mi hanno fatto capire che mancava un filtro razionale tra la mia mente e il mio corpo, un passaggio razionale che mi dicesse di non proiettare su di me tutto quello che mi faceva paura. Un meccanismo difficile da sciogliere perché per la maggior parte del tempo è inconscio, ma sembra reale: ti preoccupi di cose che non hai e magari la malattia reale non la individui né comunichi».

Quando ha scoperto di essere ipocondriaca?
«Cinque anni fa, dopo la morte di una persona giovane a me molto vicina. Da lì ho iniziato ad avere terrore che la stessa cosa potesse accadere a me o a persone a me vicine. Poi nel 2016 in contemporanea con l’uscita del mio primo romanzo “La Grande A” (Giunti editore), ho avuto un forte tracollo fisico durato sette mesi, ho perso il controllo del corpo e sembrava avessi qualsiasi tipo di malattia. Sono ipocondriaca e somatizzo le mie paure, sono arrivata a procurarmi dei finti infarti, con risvegli notturni con dolore al petto e alla mano improvvisi e poi non risulta nulla. Questo vuol dire vivere in un rapporto mascherato con il proprio corpo e non saper più leggerne i messaggi né interpretarli».
 
Pensa sia una questione al femminile?
«Nella mia vita le malattie mentali ma anche la visione delle donne come spiriti deboli fa parte purtroppo di molta della costruzione sociale intorno alle donne, che è quella di avere i nervi poco saldi. Quindi ci rende inabili a grandi responsabilità: i luoghi di potere e il lavoro pesante sono collegati alla trama troppo fine dell’animo delle donne. Oggi le donne si trovano a dover dimostrare l’opposto e a combattere costantemente con questo lato debole, che deve evitare di emergere».
 
Essere ipocondriaca e scrittrice cosa significa?
«La scrittura ora è molto legata alla performatività: scrivi un buon libro e se sei una donna giovane è sottinteso che tu possa andare in tutta Italia a fare presentazioni, devi essere pronta e disponibile a tutto. Dire che il tuo corpo non ce la fa non è accettabile, considerando invece che il tuo settore dovrebbe prevedere una delicatezza di pensiero tra corpo e mente. E ti ritrovi a non voler far sapere la verità, a resistere. Per la donna collegare la difficoltà nella vita a una difficoltà psichica è più complicato che per un uomo, vuol dire confermare la visione della 'trama fine'. È il pensiero che mi sono sentita addosso in questi anni, invece vorrei rivendicare questa sensibilità».
 
Il covid-19 ha amplificato la malattia?
«Chiaramente questa patologia psicologica e somatica mi ha investita, è diventato un terrore che non riguarda solo te e le preoccupazioni sul tuo corpo ma investe la collettività. Il rapporto con il virtuale e con le informazioni online porta tantissime a cercare in maniera spasmodica informazioni sui mutamenti del proprio corpo attraverso i siti di informazioni mediche, in forum in cui se si entra in quel mondo piuttosto inquietante si scopre che ci sono vite intere raccontate attraverso la malattia a dei perfetti sconosciuti o a delle piccole foto che rappresentano medici che dovrebbero occuparsi a distanza del tuo problema. La pandemia ci ha spostati tutti in questa dimensione».
 
Un tempo l'ipocondria era considerata uno scherzo. 
«L’ipocondria è una malattia e non fa ridere. È una patologia snervante sia per chi la ha, che per chi la deve seguire nel percorso medico e per chi ti sta intorno. Occupa la maggior parte dell’impiego mentale della persona ma negli ultimi 20 anni è più diffusa perché le patologie psicologiche prima erano sottovalutate. Si fanno battute ma chi lo è davvero vive in una condizione di affaticamento verso la vita. Quando poi si vive dentro situazioni impensabili come quelle di una pandemia in cui il pericolo è ovunque, da dove hai posato le mani a quante persone saluti, si entra in un’angoscia collettiva quasi annichilente».
 
Non è legata al passato?
«Credo sia una malattia che caratterizza le ultime generazioni, nei termini in cui si è sviluppata. Storicamente è legata al sentimento della malinconia, spesso associato alla filosofia, alla scrittura e alle lettere. Nel contemporaneo è più vicina all’idea della depressione: hanno in comune il ripiegarsi su se stessi, avere uno sguardo proiettato su noi più che sul mondo. Ipocondria nei contemporanei è legata alla sfera del virtuale e dell’autoanalisi spasmodica, meticolosa e costante del proprio corpo». 
 
Il suo intervento a Popsophia, il Festival nazionale della Filosofia del Contemporaneo che si svolge a Pesaro dal 2 al 5 luglio, è incentrato sull’ipocondria?
«La direttrice artistica Lucrezia Ercoli mi ha chiesto di ragionare su queste riflessioni parlando di ipocondriaci, donne e lavoro. Parto dall’etimologia della parola e arrivo alla condizione psicologica della vita di chi ne soffre. Una finestra che vorrebbe parlare dell’epidemia ancora in corso con uno sguardo sul rapporto con la malattia, che diventa un rapporto di vita, di continuo scontro e incontro».
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